Francesco Brusa
Sono fuggiti dalle torture e dalla repressione in Bielorussia per trovare rifugio in Ucraina. Poi, nonostante la guerra, hanno deciso di non andarsene. Un reportage
Dalle proteste all’esilio, e infine dentro la resistenza alla guerra. È il “percorso” di tante persone bielorusse che oggi si trovano, volontariamente, in territorio ucraino. Da quando è iniziata l’invasione di Putin il 24 febbraio dello scorso anno, si è molto discusso di quali fossero le motivazioni ad aver scatenato una tale decisione da parte del Cremlino e quali le visioni imperialiste che aleggiano nella mente del presidente russo e della sua cerchia di potere.
Quello che si può dire con certezza è che, ormai da tempo, all’interno della complessa galassia di retoriche, ideologie e discorsi propagandistici di cui si alimenta la cosiddetta “operazione speciale” esistono diverse teorie e narrazioni tese a giustificare la sostanziale e inscindibile unità delle cosiddette “tre Russie” (la grande Russia, la piccola Russia, ovvero l’Ucraina, e la Russia bianca, ovvero la Bielorussia): non da ultimo, lo afferma lo stesso Putin nel “saggio storico ” scritto di suo pugno che ha preceduto di una decina di mesi l’aggressione.
Si tratta di un'affermazione di unità che nei fatti implica però il dominio di una nazione sull’altra: lo si vede chiaramente dall’uso della guerra come strumento per imporre la propria volontà politica in Ucraina, ma anche dal modo in cui Putin sta cercando di subordinare sempre più la Bielorussia di Lukashenka alle proprie scelte.
Non stupisce dunque che anche la popolazione percepisca il destino di questi tre paesi come qualcosa di comune, ma in un senso opposto al modo in cui lo intende il presidente russo: "La vittoria dell’Ucraina significa anche la vittoria della Bielorussia", affermano senza mezzi termini due rappresentanti del reggimento Kastuś Kalinoŭski, un battaglione militare composto da cittadini e cittadine della piccola repubblica retta da Lukashenka che si è ufficialmente formato pochi giorni dopo l’invasione del 24 febbraio.
Si tratta di un centinaio di persone – perlopiù giovani, dai venti ai trentacinque anni – che con l’inizio dell’invasione su larga scala si sono ritrovate nella necessità di rivedere alcune delle proprie convinzioni e soprattutto delle proprie strategie: in particolare, dal loro punto di vista, lo scoppio della guerra ha reso chiaro come qualsiasi forma di protesta non violenta era insufficiente per cambiare lo status quo non solo in Ucraina ma anche nel loro paese. Da qui la scelta di imbracciare le armi e combattere a fianco dell’esercito della nazione aggredita.
Fra solidarietà e tradimento
È proprio su questo senso di appartenenza e “fratellanza”, talvolta non scevro da ambiguità, che si fonda la scelta di rimanere in Ucraina nonostante la guerra e nonostante esista per molte persone la possibilità di dislocarsi in paesi vicini più sicuri, come la Polonia. Questo, ovviamente, non vuole dire per forza combattere con le armi ma anche compiere gesti molto più semplici. "Penso che la mia missione sia quella di sviluppare e rendere migliori i rapporti fra la Bielorussia democratica e l’Ucraina", riflette la giornalista Alina Rudina, che fin dal primo momento ha messo a disposizione il proprio domicilio di Lviv per chiunque stesse fuggendo dalle zone del fronte ed è progressivamente diventata uno dei punti di riferimento per i suoi concittadini presenti sul territorio.
"Può sembrare un’affermazione altisonante, ma sono sicura che molto dipende dai rapporti e dalle connessioni personali: da quando mi sono stabilita qui in Ucraina, quasi tutta la mia vita è dipesa dall’aiuto e dal supporto di persone che mi hanno offerto un posto in cui stare e l’opportunità di lavorare. Perciò, considero importante ricambiare e mostrare loro che sono altrettanto solidale". Anche per Alina il momento decisivo è corrisposto con l’ondata di proteste anti-governative di tre anni fa, che contestavano la legittimità delle elezioni presidenziali terminate con l’ennesima vittoria di Lukashenka.
Secondo l’associazione indipendente per la difesa dei diritti umani Vesna96 al momento nelle carceri bielorusse sono detenuti 1450 prigionieri politici, la maggior parte dei quali "presi di mira sulla base di motivazioni politiche che si riferiscono agli eventi intercorsi durante e successivamente le elezioni del 2020". Racconta Alina: "Sono arrivata in Ucraina a dicembre di quell’anno, a Kyiv, senza alcun posto dove stare e senza alcun programma specifico. Anzi con me avevo solo una valigia, convinta che il tutto sarebbe durato non più di due o tre mesi. Intanto, nell’ostello in cui mi trovavo, ho conosciuto decine e decine di persone che come me scappavano dal regime di Lukashenka, un sacco di storie simili e al tempo stesso diverse fra loro: alcuni avevano raggiunto il paese senza passaporto, altri hanno attraversato foreste e fiumi, molti avevano subito arresti e torture. Nonostante avessi sempre amato la capitale ucraina, in quel momento mi risultava troppo pesante per l’alta concentrazione di dolore che sentivo attorno a me".
È per questo che Alina – che prima di allora già aveva vissuto in Ucraina ma per un periodo anche a Mosca – si è trasferita a Lviv, dove ha iniziato a lavorare per l’associazione di sostegno al giornalismo Press Club Belarus (in cui già erano presenti alcuni dei suoi colleghi fuggiti dalla Bielorussia, talvolta dopo aver passato una lunga detenzione nelle carceri di regime). Intanto, la stretta repressiva nel suo paese d’origine è andata aumentando: a maggio del 2021, il governo di Lukashenka faceva irruzione nella redazione di “Tut.by”, mettendo così fine a una delle più importanti esperienze informative indipendenti; un mese dopo, si verificò l’eclatante arresto del giornalista e oppositore Roman Protasevič, attraverso il dirottamento di un normale volo di linea diretto a Vilnius; ma soprattutto, con l’inizio di “esercitazioni congiunte” con la Russia a gennaio del 2022, la piccola repubblica post-sovietica si preparava a diventare un importante alleato logistico per l’invasione che sarebbe iniziata di lì a poco e che in molti ritenevano impossibile.
"Il primo giorno dell’invasione su larga scala io e i miei amici ci dicevamo che, se le truppe russe avessero preso Kyiv, sarebbero poi arrivate a Lviv in due o tre giorni al massimo", ricorda Alina. "Il centro per cui lavoravo mi ha consigliato di scappare, comunicandomi che da quel momento non sarebbero più stati responsabili per la mia incolumità. Ho pianto e mi sentivo davvero triste e impotente. Soprattutto, mi sentivo in colpa per tutto quello che è successo e che succede ancora nella mia nazione d’origine". Anche per una sorta di senso di responsabilità, dunque, decide di restare: già dalle prime settimane di conflitto ospita persone che fuggono dalle zone più “calde”; altri amici e conoscenti, che scelgono invece di uscire dal paese, le lasciano le chiavi di casa dei propri appartamenti, che Alina inizia a gestire e mettere a disposizione come fossero punti di accoglienza e di ristoro a favore dell’ondata migratoria che in quel momento si stava formando.
Il suo non è un caso isolato: diverse persone bielorusse si sono sentite investite da questo senso di responsabilità nei confronti dell’Ucraina, dalla convinzione che – in un modo o nell’altro – dovessero fare qualcosa. Veronika, una giovane ragazza di Minsk che si è trasferita a Kyiv anch’ella in seguito alle proteste del 2020, si è inizialmente rifugiata a Varsavia, in Polonia: "Mi sembrava che la mia vita si fosse interrotta", afferma descrivendo quel periodo. "Era come essere in uno stato di costante sospensione, come se fossi in attesa. Intanto, non pensavo ad altro che alla mia vita qui a Kyiv, al mio appartamento, ai miei libri… Ho capito in maniera definitiva che l’Ucraina era diventata la mia casa e tale sarebbe dovuta restare, perché mi aveva offerto un riparo, degli amici e così deve continuare a essere".
La permanenza in Polonia – paese in cui tra l’altro è presente ormai da decenni una nutrita comunità bielorussa, composta prevalentemente da persone che condividono un destino da “esule dissidente” come quello di Veronika – dura allora solo un paio di mesi. Veronika, reclutatrice per un’azienda di videogiochi, fa ritorno nella capitale ucraina e inizia a raccogliere fondi sia per l’assistenza umanitaria sia per le esigenze delle forze armate impegnate nel respingimento dell’invasione russa. In seguito contribuisce alle iniziative del progetto Repair Together, che si impegna nella ricostruzione e nel riassetto dei villaggi che hanno subito l’occupazione.
"In quanto bielorussa, la mia condizione è complessa", spiega ancora Veronika, la cui decisione di lasciare il proprio paese nel 2020 e arriva soprattutto in seguito al ferimento lieve della sorella di diciannove anni durante le proteste anti-governative. "Fino all’invasione dell’anno scorso non capivo il peso che aveva la Russia nelle vicende interne al mio paese. Invece, ora è pensiero comune che la nostra polizia e le nostre forze armate sono restate fedeli a Lukashenka soprattutto perché sapevano di avere il sostegno di Putin. A posteriori, quindi, so che tre anni fa abbiamo lottato non solo contro il regime in Bielorussia ma anche contro la guerra in Ucraina. Ma abbiamo fallito, e ora mi sento come se fossi seduta contemporaneamente su due sedie: mi trovo in Ucraina perché mi sono ribellata a un potere opprimente ma, al tempo stesso, perché non mi sono ribellata a sufficienza".
Non si tratta solo di speculazioni astratte: il sentimento di appartenenza e di piena solidarietà della comunità bielorussa verso quella ucraina è lo stesso da cui proviene pure il senso di colpa e responsabilità per non essere stati capaci di porre fine al regime di Lukashenka e, dunque, di non aver potuto contribuire a prevenire la guerra. A ciò si unisce, com’era prevedibile, un deterioramento dei rapporti fra le due comunità in seguito allo scoppio della guerra: un’indagine dell’Istituto di Sociologia di Kyiv condotto a settembre dello scorso anno mostra come le percezione di distanza sociale da parte della popolazione verso le persone bielorusse sia aumentata di 1,47 punti su una scala da 1 a 7 (con il gruppo dei “bielorussi residenti in Bielorussia” che rappresenta il secondo gruppo nei confronti del quale si percepisce una maggiore distanza, appena dopo i “russi residenti in Russia”).
Racconta Veronika: "È chiaro che l’atteggiamento nei nostri confronti è cambiato. Non siamo trattati al pari dei russi, ma c’è una sensazione generale di tradimento per quanto è successo. Altri sono più comprensivi e ci dicono che, comunque, abbiamo tentato e abbiamo affrontato le stesse difficoltà che in questo momento stanno affrontando gli ucraini e che per questo siamo dalla stessa parte. A ogni modo, so che dovrò portare il peso di questa responsabilità per il resto della mia vita".
“La guerra è più sicura”
Nel frattempo, con la prosecuzione della guerra, anche il futuro del paese di Lukashenka sembra sempre più incerto. Stando all’analisi presentata da Felix Vilchik sul sito posle.media, già a marzo dello scorso anno la maggioranza dei cittadini della piccola repubblica si dichiaravano contrari alle azioni compiute dalla Russia (67%) e non volevano che la Bielorussia fosse usata come base logistica per attacchi contro l’Ucraina (52%). Come è stato raccontato dalle cronache, inoltre, fin da subito si è formato un movimento partigiano che si è impegnato in azioni di sabotaggio per fermare o comunque rallentare le operazioni militari russe: al momento, almeno tredici persone sono state arrestate e punite con un totale di oltre 190 anni di prigione per azioni compiute lungo le linee ferroviarie del paese; altre trenta sono state perseguite legalmente per aver condiviso con la stampa fotografie delle truppe russe; in generale, durante i primi mesi, ci sono stati oltre mille fermi e/o arresti per dimostrazioni di contrarietà alla guerra. Allo stesso tempo, però, annota Vilchik, "il regime non teme la possibilità che si verifichino proteste, dal momento che è in pieno controllo degli organi e degli strumenti per l’utilizzo della forza coercitiva. […] La maggioranza della popolazione sente il rischio della repressione e per questo non ci sono proteste di massa riguardanti la guerra della Russia contro l’Ucraina".
La leader dell’opposizione democratica in esilio Sviatlana Tsikhanouskaya non sembra raccogliere grosso seguito in patria (già nell’ottobre successivo alle proteste per le elezioni presidenziali, il suo appello per uno “sciopero generale” andò largamente disatteso), mentre il 24 gennaio Lukashenka ha firmato un nuovo decreto sul servizio militare obbligatorio e le riserve che prevede l’arruolamento nel periodo febbraio-maggio 2023 di tutti i cittadini bielorussi di sesso maschile che hanno compiuto 18 anni e senza diritto al rinvio della chiamata. In più, è notizia degli ultimi giorni la possibile esistenza di un documento segreto redatto dal Cremlino (fatto trapelare dal sito di inchiesta Vsquare) in cui si prevede un piano di annessione della Bielorussia alla Russia entro il 2030.
Per chi se n’è andato, questa situazione si riassume in un modo paradossalmente semplice: "Mi sento più al sicuro qui in mezzo alle bombe, piuttosto che in una nazione dove vivrei nella paura quotidiana di dover subire repressioni e torture", dicono molte delle persone che si trovano in Ucraina. Stare al fianco di Kyiv significa allora sperare in un futuro migliore per il proprio paese. Intanto, però, le decisioni di Putin e lo stallo sul campo sembrano rendere questo orizzonte sempre più lontano.