Francesco Brusa Ivan Bonnin Denis Pilash
Denish Pilash, attivista e docente di scienze politiche a Kiev, racconta il tentativo della nuova sinistra ucraina di porre l'accento sul confitto sociale nel contesto della resistenza all'aggressione russa
Denis Pilash è un attivista socialista e professore associato di scienze politiche all’Università di Kyiv. In questi giorni, assieme ad un centinaio di compagni e compagne, ha partecipato al congresso del movimento Sotsyalniy Rukh, una delle voci anti-capitaliste e sindacaliste più attive in Ucraina, che dentro al sostegno della resistenza popolare all’aggressione russa sta provando a porre l’accento sul conflitto sociale, e sulle questioni relative a disuguaglianze di classe e di genere. Spesso, entrando anche in contrapposizione con le scelte governative, come nel caso delle leggi sul lavoro da poco approvate da Zelensky contro le quali il movimento ha lanciato una campagna internazionale.
Certo, la sinistra di movimento è una realtà piccola in Ucraina e il clima di patriottismo generato dall’invasione di Putin non aiuta a mettere in discussione certe tematiche e problemi. Ma, allo stesso tempo, la grande mobilitazione popolare che si è verificata dal 24 febbraio in poi sta mettendo in moto nuove dinamiche sociali e politiche, e sempre più persone sembrano volersi impegnare per cambiare l’Ucraina in un senso maggiormente progressista. Abbiamo allora chiesto a Pilash di analizzare queste tendenze, anche alla luce della recente controffensiva da parte dell’esercito ucraino e di quanto è stato discusso nel congresso del movimento, che ha visto la partecipazione di sindacalisti, attiviste femministe e Lgbtq, membri di associazioni studentesche, compagni di altri paesi.
Qual è il tuo commento sul congresso? Da una parte la guerra porta le persone a concentrarsi su problemi più immediati, ma dall’altra si è vista una nuova partecipazione e interesse per questioni politiche di stampo progressista…
Si tratta chiaramente di un momento molto complicato e difficile, pieno di ostacoli. Ma, d’altra parte, dobbiamo agire ora perché altrimenti rischieremmo appunto di non avere voce in capitolo in una congiuntura così cruciale: per esempio, le leggi sul lavoro di stampo neoliberale e dannose per i lavoratori proposte dalla Rada avrebbero potuto essere approvate senza alcuna opposizione se non fosse stato per Sotsyalniy Rukh. Infatti, anche negli stessi sindacati la consapevolezza verso queste tematiche è piuttosto bassa, pertanto un intervento politico come quello che cerchiamo di mettere in campo noi diventa assolutamente necessario.
Inoltre, si sta aprendo ora la questione relativa alla ricostruzione del paese: non solo la ricostruzione sociale ed economica post-conflitto, ma anche quella che sta avvenendo qui e ora, mentre la guerra è ancora in corso. Sia i partiti al governo che quelli all’opposizione non hanno le idee chiare su questo punto: c’è addirittura chi, all’interno della classe politica, pensa che le ricostruzioni post-belliche possano essere svolte tramite la distribuzione di microcrediti privati e liberalizzando ulteriormente il mercato. Al contrario, dovrebbe essere proprio l’opposto: occorre un intervento deciso dello stato nel mercato, con maggiore spesa sociale, ecc.
Senza lo sviluppo di una prospettiva di sinistra, tutte quelle soggettività che si stanno sobbarcando il peso maggiore della situazione di guerra, che ne pagano il prezzo più alto e che, in questo senso, costituiscono il cuore della resistenza all’invasione, sia dal punto di vista militare che civile, resterebbero prive di voce. Vale a dire, le soggettività che vanno a costituire la classe lavoratrice. Al momento, infatti, praticamente nessuno si sta facendo carico dei suoi interessi. Chi dunque dovrebbe farlo, se non noi? È una responsabilità storica, ed è per questo che credo che il nostro compito sia quello di organizzare la mobilitazione sociale e andare verso la creazione di una parte politica che faccia gli interessi della classe lavoratrice.
A ogni modo, la situazione di guerra sta aprendo possibilità inaspettate e inedite. Si è verificata una grande solidarietà spontanea da parte delle persone in tutto il paese che hanno sostenuto la resistenza e messo in piedi azioni di soccorso umanitario. Non a caso, credo, la partecipazione al nostro congresso è raddoppiata rispetto agli anni precedenti. Ci hanno contatto persone provenienti da contesti e percorsi più disparati, che erano in cerca di un’alternativa politica, così come persone appunto impegnate nelle reti di soccorso umanitario, riconoscendo in noi un punto di riferimento e di aggregazione per tante soggettività di sinistra. La nostra missione è dunque quella di costruire una piattaforma per l’elaborazione di politiche progressiste che contrastino il capitalismo neoliberale, ora ampiamente maggioritario nel contesto nazionale.
Continua dunque nel paese una mobilitazione civica e una resistenza popolare all’invasione…
C’è un senso schiacciante e una consapevolezza diffusa del fatto che questa è una lotta esistenziale e che non abbiamo nessun’altra opzione percorribile. Semplicemente si tratta del diritto di esistere come popolo, ma anche come individui. Parlo davvero di una sensibilità molto diffusa, che supera le differenze fra le varie regioni del paese, fra le classi sociali, che è comune a persone anche molto distanti fra loro e lo si può vedere dal fatto che milioni si sono impegnati attivamente dentro questa lotta.
Non parlo solo della difesa militare, che pure ha visto una grande partecipazione di volontari e volontarie, ma anche di attività meno visibili che contribuiscono in modo altrettanto importante al funzionamento di tutta la macchina della resistenza. C’è chi, ancora adesso, pur avendo ripreso a lavorare, trova comunque il tempo di aiutare gli sfollati, chi si impegna in diversi tipi di assistenza umanitaria, ecc. Davvero, stiamo parlando di milioni di persone, unite in comune impegno, che almeno in parte supera e trascende le differenze dando vita a uno spazio di organizzazione condiviso. Un altro elemento interessante in questo senso è il fatto che in molte città nei territori occupati dove sussiste una maggioranza di popolazione russofona, o comunque bilingue, durante le prime settimane dell’invasione, che ha provocato un’evidente devastazione, nutriti gruppi di civili, al di là delle differenze linguistiche, hanno provato a opporsi a mani nude ai militari russi. Si è trattato di tentativi molto coraggiosi che sono stati repressi ed ovviamente ora questo tipo di possibilità non sussiste più. Forse l’ultimo si è verificato nella città di Enerhodar, vicino alla centrale nucleare di Zaporižžja, dove pompieri e personale di sicurezza hanno provato ad animare uno sciopero, che è stato però prontamente messo a tacere dalle forze occupanti. Possiamo dunque dire che a combattere sullo stesso fronte vi siano persone che parlano lingue diverse, che hanno orientamenti politici diversi, e addirittura persone che prima del 24 febbraio avevano un’opinione molto favorevole e accondiscendente nei confronti della Russia – molti di loro sono poi rimasti scioccati e devastati da quanto è successo. Insomma, c’è un grado di partecipazione alla resistenza popolare che a mio avviso non dipende primariamente dai fattori linguistico o etnico, e questo è per noi un dato molto importante.
In che modo questi eventi hanno cambiato e stanno cambiando l’identità della sinistra ucraina? Nel corso degli ultimi otto anni, la storia del paese e anche delle forze di sinistra del paese è stata profondamente intrecciata al conflitto sociale e alla guerra: dal Maidan e la successiva guerra del Donbass fino all’invasione in corso.
In primo luogo, se parliamo della sinistra ucraina, bisogna operare una distinzione. Ci sono partiti, alcuni dei quali sono stati messi fuorilegge, che per la più parte derivano dal partito comunista sovietico e che, a mio modo di vedere, hanno perso totalmente la propria essenza di sinistra (se mai ne hanno avuta una): combinano le peggiori forme di collaborazionismo di classe, vale a dire il sostegno a gruppi oligarchici, con il conservatorismo sociale (la tendenza a sostenere la pena di morte, per esempio, o l’opposizione ai diritti di genere e delle minoranze). Si tratta insomma di realtà politiche che hanno una parvenza di sinistra a livello di nomi e di simbologia, ma che di fatto rappresentano delle forze di destra populista. Pertanto, se parliamo di sinistra, mi riferirei esclusivamente a quelle piccole soggettività anarchiche, anti-autoritarie o di derivazione marxista che vengono comunemente raggruppate sotto il termine di «nuova sinistra» nello spazio post-sovietico.
Si tratta di una distinzione presente già prima di Euromaidan ma che, in seguito agli eventi del 2013-2014, si è acuita in maniera definitiva. Se parliamo dunque di una identità della «nuova sinistra» ucraina, stiamo parlando di un’identità non cristallizzata ma fluida, una sorta di continuum di forze politiche che condividono una posizione critica del passato sovietico. Il Maidan, nonché la guerra del Donbass, hanno prodotto spostamenti e riaggiustamenti all’interno di questo continuum. Nello specifico, le proteste del 2013-2014 hanno portato alcuni a distanziarsi da quell’esperienza di piazza, nonostante vi avessero preso parte almeno inizialmente, e a disilludersi rispetto all’attivismo, andando verso una sostanziale depoliticizzazione. Dall’altra parte, si è creata un’opposizione interna anche alla «nuova sinistra»: c’era chi ha provato a partecipare e intervenire politicamente in quello che era un movimento certamente contraddittorio ma di massa, che si potrebbe paragonare ad altre sollevazioni popolari di quel periodo successivo alla crisi economica del 2008 come le primavere arabe (senza dimenticare le peculiarità dei contesti regionali e nazionali, ovviamente), mentre altri fin da subito hanno bollato come illegittime le proteste, vista la presenza (non maggioritaria, ma tollerata dal mainstream) di elementi di estrema destra al suo interno, che erano comunque fonte di preoccupazione per tutte le soggettività di sinistra. Questa parte scettica nei confronti del Maidan è finita con l’assumere una sorta di posizione «lealista», nella sostanza pro-governativa e in definitiva filo-russa.
Insomma, si trattava di una situazione complessa che è stata interpretata a sinistra in differenti modi: in piazza erano presenti strati sociali molto diversi fra loro, la composizione di classe non era lineare ma – mi viene da dire – le rivendicazioni che animavano le protesta erano certamente simili, come già menzionato, a sollevazioni popolari dello stesso periodo quali le primavere arabe: ineguaglianza, povertà, brutalità della repressione poliziesca, crisi della rappresentanza politica, rabbia popolare che è andata costantemente crescendo, specialmente dopo che la violenza da parte delle forze dell’ordine si è abbattuta sulla folla.
In forme simili, con la guerra del Donbass si è riprodotta una spaccatura all’interno della sinistra: andando per sommi capi, c’è chi si è schierato con la Russia e ha dipinto le repubbliche popolari come una sorta di resistenza antifascista (all’interno della nuova sinistra, mi riferisco quasi esclusivamente a persone fuoriuscite dal Partito Comunista e al gruppo Borotba, i quali però – finendo in quel contesto a collaborare con gruppi di estrema destra russi – si sono alienati qualsiasi simpatia del resto della sinistra ucraina) e c’è chi, soprattutto proveniente da un ambiente anarchico, ha adottato delle posizioni di anarco-nazionalismo, appoggiando cioè l’operazione anti-terrorismo lanciata da Poroshenko (interessante notare come spesso si trattasse delle persone che inizialmente erano scettiche nei confronti del Maidan). Anche in quella situazione, comunque, si è messo in moto un processo altamente contraddittorio: a un certo punto, a Donetsk, c’erano mobilitazioni di dimensioni più o meno uguali, pro-Maidan e anti-Maidan, e la cosa interessante è che le persone che aderivano da una parte o dall’altra, tralasciando le posizioni completamente folli che si schieravano apertamente per la Russia, avevano più o meno gli stessi obiettivi. Entrambe le parti, cioè, dicevano di scendere in piazza per evitare che il paese venisse sequestrato dagli oligarchi.
Nonostante questo il paese è sprofondato in una sorta di guerra civile…
La tragedia di quel momento consiste nell’assenza di un soggetto e una forza politica progressista capace di elaborare un programma convincente per le due fazioni, ma va detto che in Donbass le manifestazioni anti-Maidan hanno avuto praticamente fin dall’inizio una forte componente costituita dalle vecchie élite regionali che intendevano stuzzicare i sentimenti separatisti probabilmente per mantenere il proprio dominio nell’area, nel mentre che si accorgevano di perderlo nel resto del paese (il Partito delle Regioni era, sostanzialmente, il partito dei maggiori oligarchi come Akhmetov). In più, c’era il grosso elefante nella stanza dell’imperialismo russo. Pertanto, immediatamente dopo la deposizione di Janukovich, la Russia ha approfittato della situazione per occupare la Crimea per poi continuare la propria opera di destabilizzazione, utilizzando il discontento anti-Maidan per i propri scopi geopolitici. La guerra del Donbass è infatti iniziata con l’arrivo in territorio ucraino del militare russo Strelkov, che ha preso il controllo di alcuni centri uccidendo gli amministratori locali.
Solo dopo questi avvenimenti, l’Ucraina ha dato il via alla cosiddetta operazione anti-terrorismo la quale, va ribadita, è stata un grosso errore. Ma, a ogni modo, la maggiore forza che ha portato verso la guerra è stata l’intervento russo: un intervento diretto in Crimea e indiretto in Donbass. Due mosse che, retrospettivamente andrebbero lette come il risultato di due diverse dinamiche: da una parte come elementi di una strategia imperialista più ampia volta a soggiogare quelle regioni o nazioni che vengono percepite come interne alla propria sfera di influenza e, dall’altra, come reazione delle élite al potere al panico generato in loro dalle sollevazioni popolari. In maniera simile al diciannovesimo secolo, quando la Russia si presentava come forza di stabilità europea in un senso reazionario, per cui ogni rivoluzione o protesta di massa era sempre ispirata da una qualche ingerenza esterna ed era pertanto necessario preservare e salvaguardare ogni regime autoritario.
Già nel 2014 questo tipo di interpretazione dell’atteggiamento russo era abbastanza condiviso all’interno delle forze di sinistra. Alcuni attivisti, la più parte provenienti dagli ambienti della sottocultura del tifo calcistico, si unirono dunque alle forze militari ucraine nell’operazione anti-terrorismo. Altri invece sostenevano una posizione per cui, pur riconoscendo che la maggiore forza trainante degli eventi in Donbass fosse l’interventismo russo, fosse necessario elaborare una strategia politica e umanitaria totalmente differente per dialogare e persuadere le persone rimaste nei territori indipendenti o irridenti: mentre la classe dirigente adottava delle leggi di stampo più conservatore e nazionalista, come le leggi di de-comunistizzazione, parte della sinistra tra cui noi si proclamava invece a favore di azione di segno opposto, molto più aperte nei confronti di chi sosteneva le repubbliche separatiste.
A quel punto, le forze politiche collegate alla nostalgia sovietica e il partito comunista in Ucraina, così smaccatamente filo-russo, erano andate morendo spontaneamente perché non erano in grado di esprimere alcun progetto appetibile per nessuno. La loro messa al bando ufficiale è avvenuta in questa fase. Ciò che rimaneva era dunque una «nuova sinistra» parecchio disorganizzata e qualche gruppo più strutturato di tendenza anarchica, come il gruppo studentesco di Azione Diretta (il cui fondamento era l’anarco-sindacalismo, ma che avevano già passato il loro momento di maggiore attività). Sotsialny Rukh fu dunque creato sulla scia di quella congiuntura e sulla scia delle proteste del Maidan, proprio perché ci eravamo accorti della mancanza di un progetto politico indipendente e organizzato di stampo socialista nel contesto ucraino. Questa consapevolezza era condivisa anche da alcuni degli elementi più militanti e combattivi delle realtà sindacali. Più o meno, è dunque questo lo scenario con cui si è arrivati alla presente invasione, che ha visto fra le altre cose anche una ripresa di attività del movimento anarchico che si è impegnato sia al fronte che nelle iniziative di sostegno umanitario alla popolazione civile.
Come hanno invece influito questi eventi sugli sviluppi delle forze di estrema destra?
Molti di noi vengono da ambienti e dalla militanza della sinistra antifascista. Mi ricordo come per molto tempo la violenza di strada da parte dell’estrema destra nei nostri confronti abbia costituito un problema e di come la politica istituzionale abbia sempre chiuso un occhio verso la questione. D’altronde accade molto spesso che le élite al potere sfruttino per i propri scopi o comunque tollerino l’attività delle fazioni di estrema destra eversiva. Ma, se pensiamo a 10-12 anni fa, c’era scarsa attenzione anche da parte della sinistra internazionale: l’estrema destra in Ucraina non sembrava qualcosa di molto importante.
Ma, soprattutto verso la fine degli anni 2000, abbiamo vissuto un periodo parecchio intenso di scontri con fazioni e attivisti di estrema destra, che erano in crescita, e portavano spesso avanti attacchi a eventi di sinistra, picchiando gli attivisti (non solo i militanti antifascisti, ma persone del movimento studentesco, femminista, Lgbtq ecc. ecc.). Dopodiché, quasi all’improvviso, tutte queste dinamiche hanno assunto un’importanza straordinaria per la sinistra internazionale ed è successo esattamente nel momento in cui questo poteva servire a legittimare le posizioni filo-russe e a negare ogni tipo di solidarietà con il popolo ucraino con la scusa che si sta parlando di una nazione fascista.
Ovviamente quella dell’estrema destra e in particolare dei gruppi con un’ideologia nazista o para-nazista rappresenta una minaccia cui occorre prestare attenzione. Soprattutto coloro che erano disponibili a combattere nel 2014, e avevano formato i propri battaglioni quali l’Azov (sicuramente il più riconosciuto battaglione apertamente di estrema destra), hanno guadagnato molta legittimità dalla guerra in Donbass e, chiaramente, anche dalla resistenza all’aggressione russa in corso. Tuttavia, a livello elettorale, forze come Svoboda hanno ridotto miseramente i propri consensi appena dopo il Maidan e, alle elezioni successive a quegli eventi, si può pure dire che fosse un partito sostanzialmente di destra populista, benché avesse ancora qualche caratteristica fascista o para-fascista.
A ogni modo, ancora adesso credo che il problema dell’estrema destra sia caratterizzato da una forte sovraesposizione mediatica. A difendere Mariupol, per esempio, c’erano migliaia di persone, tra cui molti marine, ma si è discusso quasi solo di Azov. E nello stesso Azov o nei vari battaglioni che si sono formati nel 2014 la presenza di soggetti di chiara appartenenza ideologica nazista o para-nazista è andata diminuendo, proprio perché tantissime persone dalle più diverse provenienze si è unita alla resistenza. Questo chiaramente non vuol dire che i rapporti di forza e le dinamiche politiche siano cambiati in maniera definitiva. È un processo ancora aperto.
Date le riconquiste territoriali della controffensiva ucraina, paradossalmente, la questione del Donbass ritorna a essere all’ordine del giorno. Quale ti sembra essere una prospettiva sensata e di sinistra per l’autodeterminazione di quelle regioni?
Bisogna riconoscere che il maggior portato di distruzione e di peggioramento delle condizioni di vita della popolazione civile nel Donbass è stato causato dalla Russia e che la decisione di lanciare questa nuova offensiva su larga scala in Ucraina da parte di Putin ha avuto come conseguenza il decesso di decine di migliaia di morti in quelle zone. Qualcosa che non può essere neanche lontanamente comparato con i momenti peggiori della guerra del 2014-2015. Inoltre, occorre tener presente il fatto che è in corso una mobilitazione militare forzata nella zona, per cui le persone residenti in Donbass vengono sostanzialmente utilizzate come carne di cannone da parte dell’esercito russo (come succede per esempio con i siriani da parte della Turchia, nel caso delle brigate turkmene siriane).
Dunque, può essere che a seconda di come si svilupperà la controffensiva si presenterà la questione della reintegrazione del Donbass nel territorio ucraino. Penso che, ovviamente, nel caso si debba lavorare per una reintegrazione pacifica, ma questo era già un punto del programma con cui è stato eletto Zelensky e fino all’ultimo momento anche lo stato maggiore militare del paese avevano sottolineato come non si sarebbero impegnati a recuperare la regione con la forza. Ma ora, chiaramente, la situazione è cambiata. L’invasione della Russia ha dato ipoteticamente il via libera a una riconquista del territorio per via militare. Pertanto, credo che dobbiamo davvero ripensare come prendere in considerazione nel miglior modo la prospettiva delle persone che vivono in quelle zone e delle persone che sono fuggite dal 2014. Ma a quel punto c’è la questione, molto delicata, del «collaborazionismo».
In questo senso, stiamo ricevendo segnali molto contraddittori da parte delle autorità: c’è chi si mostra maggiormente accondiscendente e chi, invece, spinge per considerare come un traditore chiunque abbia anche solo accettato, per esempio, di prendere un passaporto russo (una decisione evidentemente forzata, il più delle volte), oppure il personale medico che, giustamente, sente il dovere di assistere e curare anche i militari russi nelle zone occupate. Penso allora che dobbiamo tracciare una distinzione chiara fra chi si è impegnato volontariamente e ad alti livelli nel sostengo all’occupazione (chi è entrato a far parte dell’amministrazione o dei canali di propaganda, o chi è entrato a far parte del partito di Russia Unita attivo negli stati fantoccio del Donbass) e chi invece è stato mobilitato contro la propria volontà e non aveva altre opzioni. Purtroppo, ogni possibilità di resistenza pacifica all’occupazione è stata repressa con violenza e anche la stessa resistenza armata che si è sviluppata nei territori occupati è stata per ora indirizzata soprattutto verso contro i collaborazionisti più odiati che rivestono alte posizioni di potere, o verso alcune vecchie figure politiche smaccatamente filorusse, o propagandisti che hanno fatto proprie assurde teorie del complotto. È problematico, ma si tratta di qualcosa di comune a tutti i movimenti di guerrilla, si potrebbe dire lo stesso dei partigiani francesi durante la Repubblica di Vichy che non erano certo delicati con i collaborazionisti…
In definitiva, penso che ciò che vada messo in primo piano siano i diritti delle persone che hanno sofferto il maggior carico di dolore nel contesto dell’occupazione, anche di quelle che hanno sviluppato un legittimo senso di risentimento nei confronti dello stato ucraino. Forse l’approccio più giusto e inclusivo sarebbe quello di proporre un’amnistia generale per tutti quelli che non hanno commesso alcun tipo di crimine di guerra, ma allo stesso tempo chi si è reso responsabile di violenze e torture dev’essere sottoposto al giudizio di qualche tribunale internazionale simile a quello impiegato durante la Seconda guerra mondiale. Ma questo chiaramente implica anche che le élite russe debbano essere messe sotto processo.
Nel frattempo, l’Ucraina va sempre più formando la propria identità nazionale in una direzione che sembra implicare l’abbandono dell’influenza della cultura e della lingua russe. Come leggi questo processo di de-russificazione?
In epoca pre-sovietica la lingua ucraina è stata repressa in modi non dissimili da come magari è stato represso il catalano in epoca franchista. Veniva visto dalle élite russe come qualcosa di non «reale», una deformazione del russo ufficiale. Ma al di là di un primo periodo di «ucrainizzazione» della nostra comunità, che è seguito alla rivoluzione del 1917 per poi essere nuovamente represso dal recupero stalinista della «grandezza russa» e da un approccio maggiormente sciovinista, tutti coloro che erano entusiasti per la liberazione nazionale ucraina, in un senso soprattutto socialista e progressista (ma non solo in Ucraina, il discorso è valido per la quasi totalità delle identità nazionali presenti nell’ex-Urss), vennero messi a tacere o perlopiù uccisi. Si è affermata dunque una tendenza imperialista, per cui il russo era la lingua dominante che soggiogava le altre, e specialmente quelle legate dal punto di vista linguistico al russo, come l’ucraino o il bielorusso. Quando l’Ucraina ha raggiunto l’indipendenza si è creata una sorta di discrepanza: l’ucraino è diventato lingua di stato, mentre il russo veniva comunque menzionato nella costituzione come lingua minoritaria da preservare e da rispettare assieme ad altre, ma allo stesso tempo era il «mercato» a decidere quale fosse realmente la lingua dominante.
Per esempio, nei primi anni dell’Ucraina indipendente ci furono molti più libri e giornali stampati in russo di quanti probabilmente ce ne fossero durante l’Unione sovietica (durante la quale, tra l’altro, si era comunque aperto un dibattito riguardante lo statuto dell’ucraino soprattutto grazie a Ivan Dzjuba) proprio perché a «dettare legge» erano le tendenze di mercato molto più che le intenzioni di chi stava al governo, con dinamiche dunque non dissimili da quelle per cui l’inglese si è affermato come lingua diffusa a livello internazionale. A quel punto, la questione dell’identità linguistica è stata ampiamente strumentalizzata dalle forze politiche, perché era un elemento di facile aggregazione e “distrazione” da problematiche più concrete e sociali che sarebbe risultate invece maggiormente divisive. A partire dalle elezioni che diedero il via al Maidan, tali problematiche vennero ampiamente utilizzate dalle forze di tutto lo spettro politico, sia da quelle più nazionaliste-ucraine sia dal Partito delle Regioni che invece prometteva la salvaguardia del russo. Si è verificata allora una discriminazione a livello informale da ambedue le parti: se il russo può essere considerato male in alcune comunità ucraine più nazionaliste, così l’ucraino è stato spesso considerato una lingua inferiore e «da contadini» in alcuni circoli filo-russi.
Nella situazione attuale, comunque, le persone sono perlopiù guidate dai propri sentimenti ed emozioni: molti si rifiutano di utilizzare il russo perché non vogliono identificarsi con l’aggressore e con la sua cultura. Ed è comprensibile. Altre persone, comunque, continuano a utilizzare l’idioma perché chiaramente capiscono che non è qualcosa che possa essere totalmente assorbito dalla volontà del Cremlino. Come d’altronde, è il caso di tante altre lingue imperialiste, dallo spagnolo al francese. Ma vale la pena ricordare che la maggioranza delle persone in Ucraina è essenzialmente bilingue. In più c’è la variante creola del surzhuk, un misto di ucraino e russo, oltre a numerose varietà di dialetti. Così come ci sono altre minoranze linguistiche che vogliono preservare la propria identità. Insomma, c’è una storia complessa a riguardo. Credo che, per sostenere e rinforzare la lingua ucraina, occorra avere innanzitutto una cultura ucraina e delle concrete e adeguate politiche che ne sostengano la diffusione: per esempio, promuovere educazione, la stampa di libri, le opere artistiche e la circolazione di testi scientifici in ucraino. Allo stesso tempo, vanno preservati di diritti culturali e linguistici delle minoranze. Proprio perché non esiste una vera identità ucraina, dal punto di vista strettamente etnico.
Con la condivisione di una lotta comune contro l’invasione, queste comunità potrebbero rivendicare il proprio diritto a una piena cittadinanza all’interno della più generale comunità ucraina. Non dimentichiamoci che molti membri della comunità rom, che usualmente soffrono il maggior peso delle discriminazioni, stanno combattendo al fronte. Occorre dunque contrastare ogni progetto politico che si incentri su un nazionalismo di stampo etnocentrico. Ma questo ancora ci rimanda alla questione di una trasformazione politica e sociale anche all’interno della Federazione Russa, senza la quale si rischia di avere sempre una sorta di revanscismo imperiale. E questa trasformazione non può essere portata avanti se non dagli stessi cittadini russi e le stesse cittadine russe.
A questo proposito, come vedi il futuro della sinistra ucraina e delle sinistre bielorusse e russe? Considerando il fatto che, purtroppo, l’invasione di Putin sta dividendo queste comunità post-sovietiche in maniera sempre più profonda…
Beh, diciamo che sicuramente in questo momento abbiamo un nemico comune. È vero: anche in passato si sono verificati sviluppi e processi che hanno portato i movimenti antifascisti e di sinistra di questi paesi in direzioni molti diverse fra loro, ma penso che, in generale, se ci si trova dalla stessa parte politica non conta davvero il fatto che tu ti trovi fisicamente in Ucraina, Russia, Bielorussia oppure in Myanmar o in America Latina o in qualsiasi altra parte del mondo. Stai comunque condividendo la stessa visione rispetto a ciò per cui sei a favore e ciò contro cui invece ti batti.
Nello specifico del nostro contesto, credo che per molto tempo abbia aleggiato sulla sinistra lo spettro del passato sovietico. C’era una certa ossessione e nostalgia nei confronti dell’Unione sovietica, che da alcuni veniva vista come qualcosa da ricostruire a tutti i costi. Direi che ora questo è completamente cambiato. Ma, dal mio punto di vista, il nostro compito dovrebbe essere quello di ripensare la solidarietà in un’ottica globale, inclusa la solidarietà con le persone attive nelle altre repubbliche post-sovietiche. Ci sono chiaramente delle specificità: in Bielorussia, come abbiamo visto, la gente era davvero sul punto di ribaltare il regime e il ruolo perlopiù spontaneo che elementi della classe operaia hanno giocato nelle proteste ha sorpreso un po’ tutti mentre uno dei settori maggiormente attivi nell’opposizione a Lukashenko è sempre stato il movimento anarchico, che è stato tra l’altro attivo nei sabotaggi durante l’auuale guerra. Anche in Russia pare esserci una resistenza di questo tipo, mentre molti movimenti democratico-socialisti – con cui abbiamo collaborato per lungo tempo – hanno espresso senza riserve la loro contrarietà alla guerra in corso. E, devo dire, molto spesso si esprimono contro l’imperialismo russo in una forma molto più militante e combattiva delle loro controparti «occidentali», che talvolta rivendicano la necessità di restare neutrali o di dover combattere innanzitutto la Nato anche nel mezzo di un conflitto in cui è un altro specifico imperialismo a essere l’attore principale.
È d’altra parte vero che in tanti all’interno della società ucraina sono disillusi rispetto alla società russa: ci si aspettava una reazione di protesta più massiccia e più diffusa all’inizio della guerra e molte persone hanno amici o parenti in Russia che si rifiutano ancora di riconoscere le atrocità che sta commettendo il loro paese in Ucraina. Allo stesso tempo, l’opposizione in Russia va supportata e non bisogna dimenticare che il consenso per Putin e la sua guerra non è totale. Il fatto è che i regimi autoritari come quello russo operano al fine di de-politicizzare e de-mobilitare la società. Tutto il contrario dei fascismi storici, anche se l’isteria bellica che si è prodotta con la guerra e che viene diffusa dalla propaganda russa è un nuovo tentativo di galvanizzare le folle, che ricorda sinistramente alcuni esempi del passato. Eppure, non si vede in giro chissà quale entusiasmo. Quindi il problema è la passività e il fatto che la maggioranza delle persone in Russia è sostanzialmente d’accordo con il mantenimento dello status quo, il che significa anche che il lavoro politico per cambiare questo stato di cose sarà necessariamente duro e faticoso. Ma non è un lavoro politico senza speranza. Adesso è stata annunciata la mobilitazione parziale ma, ancora, Putin non ha pronunciato la “parolina magica”, ovvero la guerra. È un segno che le stesse élite si rendono conto che non c’è un generale entusiasmo da parte della popolazione per l’idea di andare a morire per ideali che non sono chiari a nessuno.
La Russia sta dunque conducendo una guerra di stampo neo-coloniale, impiegando soprattutto contractor e gruppi militari privati, oppure mobilitando forzatamente minoranze etniche e parti della popolazione più povera, che vengono spediti in Ucraina a uccidere non solo gli ucraini ma anche altre minoranze etniche. Insomma, questa guerra rende chiaro come fra le vittime dell’imperialismo russo ci siano anche e soprattutto gli strati più poveri della popolazione russa. Ma è difficile prevedere che cosa succederà. Non credo che ci siano le condizioni affinché si formi un movimento anti-guerra come quello della guerra del Vietnam. La macchina oppressiva russa sta anzi facendo tutto il possibile affinché non ci sia una mobilitazione di massa, ma chissà, forse oramai – con le sconfitte avvenute sul campo – inizia a essere chiaro anche alla popolazione russa che «lo Zar è nudo».