Francesco Brusa
Del viaggio di Susan Sontag ad Hanoi durante la guerra del Vietnam, in solidarietà con la resistenza comunista all’invasione statunitense del 1965, rimarrà una frase, un monito quasi, ad attraversare il movimento della contestazione sessantottina che si svilupperà di lì a poco fra la Sorbona e la California: “Portare il Vietnam dentro di sé”. Lo ha ricordato, fra gli altri, la storica e militante femminista Anna Bravo in un saggio a chiusura del volume Il ‘68 sequestrato a cura di Guido Crainz, dedicato ai movimenti di contestazione “al di là” della cortina di ferro, che tanto ci re-interrogano nella pressante attualità. Bravo spiega come – oltre al concreto appoggio alla lotta anti-imperialista del popolo vietnamita e allo sviluppo del movimento contro la guerra negli Stati Uniti – la metafora simboleggiasse la sfida del “trasformare sé stessi, in uno scontro interno fra la parte di ciascuno che rappresenta le forze dell’autoritarismo, la parte che incarna il bisogno di liberazione, la parte che cerca di sottrarsi a questa dicotomia”. Una sfida non priva di contraddizioni e se vogliamo anche di fallimenti, che costituisce però uno dei lasciti più importanti e sinceri di quella stagione, che contribuì pure alla formazione di una nuova idea di sinistra e di internazionalismo dei paesi occidentali. Una sfida, dice sempre Bravo, che deve mettere in conto anche “le sofferenze – perché i condizionamenti esistono, esistono le complicità interiori, e liberarsene può essere duro”.
A otto mesi dall’inizio di quella che il presidente russo Vladimir Putin chiama ‘operazione speciale’, e che è però un’invasione su larga scala del paese confinante con tanto di annessione di territori, verrebbe da riprendere ancora una volta quelle parole e sostituire il Vietnam – sia in senso letterale che metaforico – con l’Ucraina. Siamo capaci, cioè, di portare l’Ucraina dentro di noi e provare a percorrere le strade cui ci porta questa affermazione di principio? Sabato scorso si è svolta a Roma la manifestazione probabilmente più partecipata nel nostro paese degli ultimi dieci-quindici anni: oltre 100mila persone hanno sfilato nel centro della capitale per chiedere la pace e la cessazione immediata delle ostilità.
La piattaforma che ha lanciato l’iniziativa ha visto il forte protagonismo del sindacato confederale della Cgil, a tutti gli effetti la forza maggiormente visibile in piazza, e di diverse realtà pacifiste come la Rete Pace e Disarmo o l’associazionismo cattolico, come la Comunità Sant’Egidio e le ACLI. Il comunicato di convocazione della piazza – ineccepibile da un punto di vista teorico – lasciava però spazio a una grossa difformità di posizioni e glissava (probabilmente di proposito) su quelli che sono stati i maggiori punti di divisioni “a sinistra” nei primi momenti dell’invasione: l’invio di armi allo Stato ucraino, uno su tutti; il giudizio sulle responsabilità della Nato e dell’Ue nel favorire la guerra (e soprattutto nel ruolo che queste entità dovrebbero assumere nel conflitto) e il tipo di appoggio e sostegno che dovrebbe essere accordato alla resistenza del paese invaso (cui, nel comunicato, si concede un generico “rispetto”).
Sinistra al bivio
Tant’è che nello spazio della manifestazione hanno potuto convivere – senza che questo debba essere considerato per forza un elemento negativo – posizioni e soggettività anche in forte contrasto fra loro: da chi vede nel conflitto in corso nient’altro che una “guerra per procura”, e che pertanto considera come azione primaria da perseguire il disarmo del “regime nazista” di Kyiv (si vedano per esempio le testimonianze raccolte da Info.aut), a chi come MicroMega e il comitato Stop alla guerra in Ucraina ha sentito come obiettivo principale la richiesta del ritiro delle truppe russe e ha posto come slogan di testa un perentorio “Putin go home”. In parallelo, si sono svolte anche manifestazioni a Milano, dove il terzo polo di Calenda ha egemonizzato la solidarietà con l’Ucraina lasciando peraltro spazio a dichiarazioni sopra le righe dal tono decisamente guerrafondaio, e a Napoli, in cui Gkn e altre realtà autogestite hanno posto maggiormente l’accento su rivendicazioni sociali inerenti il contesto italiano.
La domanda sorge allora spontanea: in questo momento, la sinistra di movimento del nostro paese ha la forza e la volontà di rimettersi in discussione e cambiare la propria identità in una direzione che sia all’altezza delle sfide cui ci mette di fronte il presente? Ha le capacità per “partire da sé”, nei due sensi cui questa locuzione allude, sapendo cioè compiere un lavoro di riflessione su sé stessa ma al tempo stesso allontanandosi da alcuni dei suoi preconcetti più stantii? Forse, proprio la manifestazione di sabato scorso indica quanto si è davanti a un bivio, a due strade diverse non facilmente riconciliabili. Data la complessità della situazione, ma data anche e soprattutto la “pigrizia ideologica” mostrata da numerose personalità, associazioni e collettivi di sinistra (per cui non si è voluto riconoscere, se non di sfuggita, il dato macroscopico dell’imperialismo russo e dell’autoritarismo aggressivo di Putin, eliminando oppure minimizzando questa variabile da qualsiasi analisi), sembrerebbe lecito affermare che per “riempire le piazze”, per ricostituire un movimento di massa che ambisca a essere “per la pace” o “contro la guerra”, non si possa sfuggire alla vaghezza delle proposte e a un certo grado di ambiguità morale, per cui la solidarietà alle vittime rimane qualcosa di condizionato e non realmente sentito, nel peggiore dei casi, o comunque di meramente umanitario, nel migliore. Si tratta, d’altronde, di una conseguenza inevitabile nel momento in cui si agisce in maniera puramente antagonista dentro un quadro generale in cui, però, non sono i propri governi e le proprie istituzioni i responsabili primari di quanto sta accadendo (e che segna un’evidente differenza fra le mobilitazioni di oggi e il movimento che si oppose alla guerra all’Iraq del 2003, per esempio). Anzi, il dubbio che lascia la piazza di San Giovanni è proprio questo: dov’è il conflitto e contro chi lo si sta praticando? E, di converso, quali principi e quali valori si stanno difendendo ed esattamente dall’attacco di chi? La mobilitazione di sabato e più in generale la sinistra in Italia oggi non sembra essere in grado di esprimere un programma politico alternativo che non sia un ritorno al passato, a quello statu quo che precedeva lo scoppio del conflitto che questo stesso conflitto rende impraticabile. Un no conflittuale, implicato, richiederebbe di rispondere a domande quali: che tipo di democrazia ci immaginiamo nel contesto attuale – di fascismi vecchi e nuovi – e come è possibile una progressiva estensione dei diritti? Come giudichiamo dunque movimenti che lottano, esplicitamente, per una maggiore democrazia? Che cosa intendiamo per autodeterminazione dei popoli? Qual è la nostra concezione dell’imperialismo nell’attuale scenario globale e come immaginiamo un’architettura di sicurezza comune sulla scena mondiale? Che politica estera immagina la sinistra?
Mutualismo, solidarietà, resistenza
L’altra strada, chiaramente più minoritaria e forse faticosa, è quella della solidarietà attiva e del mutualismo. Dopo poco l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, alcune sigle e realtà appartenenti all’area di sinistra e del pacifismo del nostro paese si sono messe in contatto con gruppi resistenti anti-autoritari ucraini e con il movimento contro la guerra russo, in particolare quello femminista, provando a immaginare iniziative di supporto concreto e schierandosi con nettezza contro l’aggressione. Spazi sociali come Làbas di Bologna, sindacati indipendenti come Adl Cobas e piccoli gruppi come le Brigate Volontarie per l’Emergenza, da una prospettiva più politica e militante, ma anche Ong come Mediterranea Saving Humans, l’associazione Orlando e la coalizione Stopthewarnow, con un approccio maggiormente umanitario, o infine il Movimento europeo azione nonviolenta, in un’ottica di gestione creativa del conflitto, hanno organizzato carovane e delegazioni sul campo. Parallelamente, è nata anche una sotto-sezione italiana della Rete Europea di Solidarietà con l’Ucraina, che unisce militanti di vari paesi per elaborare e rilanciare, assieme a corrispettivi ucraini del movimento Sotsyalniy Rukh, campagne e petizioni di protesta, come quella sulla cancellazione del debito del paese o contro le leggi anti-sindacali del lavoro varate da Zelensky. Si tratta di iniziative che coinvolgono un numero di persone spesso esiguo, così come è opportuno rilevare che gli ambienti della “nuova sinistra” e del sindacalismo indipendente ucraini (o della dissidenza russa di ispirazione socialista e femminista) rappresentano anch’essi un punto di vista parziale e non eccessivamente influente nel contesto del Paese. Eppure è forse proprio questa “parzialità”, per quanto frammentaria e rischiosa, che dovrebbe costituire il terreno di lotta privilegiato di una sinistra internazionalista e, ancora prima, un filtro fondamentale per comprendere materialmente e realisticamente gli eventi in corso.
Perché il rischio sempre dietro l’angolo è quello del “pensiero apocalittico” e massimalista come alibi per il disimpegno, nelle sue varie declinazioni: dalla geopolitica campista al “pacifismo egemone” di cui parlavaFrancesca Melandri su queste pagine, fino al cosiddetto disfattismo rivoluzionario “in assenza di rivoluzioni”, ispirato in modo distorto alla storica sinistra di Zimmerwald, che viene riproposto piuttosto spesso a sinistra. Dell’evocare in continuazione lo spettro della terza guerra mondiale o della catastrofe atomica, o del trattare la Guerra con la “g” maiuscola, in assoluto (passando sopra al fatto che occorre capire innanzitutto questa specifica guerra nella sua peculiarità e pure multi-dimensionalità), come rifiuto di posizionamento e di scelta. Resta il fatto che il contrario di una aggressione imperialista e dai tratti post-fascisti è la resistenza, con tutta la sofferenza e le problematiche che questo comporta, e che in un contesto siffatto la pace si costruisce innanzitutto con la militanza, non con una diserzione impossibile (o peggio, dal punto di vista italiano, una “diserzione per procura” che si vorrebbe imporre al popolo ucraino). In un’ottica progressista e di sinistra, e col privilegio di essere relativamente lontani dal campo di battaglia, questo significa sapere leggere e agire dentro il conflitto sociale e politico sia interno allo stato ucraino sia “a cavallo” fra i paesi est-europei. Sostenere lavoratori e lavoratrici, sindacati, movimenti femministi, gruppi di difesa dei diritti LGBT e tutte quelle soggettività che si contrappongono alla linea di Zelensky rispetto alle idee di paese da mettere in campo, ma che sono unite nella necessità di difendere l’integrità territoriale; essere in grado di osservare e appoggiare – in un’Europa che si sta riorientando sempre più attorno ai nazionalismi di stampo conservatore – le numerose “dissidenze” attive nei diversi contesti: chi in Russia protesta contro la guerra, o ne fugge, i gruppi solidali in Bielorussia che subiscono la repressione di Lukashenka, i movimenti femministi in Polonia che da anni contestano le politiche della destra, così come le reti nei Paesi baltici che si spendono per un’accoglienza degna di profughi e migranti, eccetera.
Saper vedere cioè – come diceva la militante e ricercatrice ucraina Yuliya Yurchenko – «i comuni interessi di classe che tagliano trasversalmente il conflitto a un livello internazionale», e provare a dargli forza. Il che significa, sostanzialmente, riuscire a porre la questione dell’autodeterminazione dell’Ucraina come una questione europea:un’Europa che ancora ha da venire e il cui futuro prossimo sarà negoziatoanche dalla sinistra internazionalista che si è opposta alla guerra di Putin, nella misura in cui questa sinistra saprà reinventare se stessa.