La difficile equidistanza

Author

Bruno Cava

Date
April 12, 2023

Lula si smarca dall'invio di armi al fronte ucraino ma condanna l'invasione di Putin. Una posizione emblematica di un paese che prova a interpretare la ridefinizione degli equilibri globali sfuggendo alla logica delle potenze

Lula ha detto «no» alla richiesta del cancelliere tedesco Olaf Scholz di fornire munizioni presenti nei depositi brasiliani per i carri armati Leopard consegnati all’Ucraina. Al contempo Lula ha anche detto «no» alle pressioni dei suoi partner nel blocco Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) per allinearsi con loro nel voto sulla Risoluzione Onu n. ES-11/L.7: lo scorso 16 febbraio il Brasile ha votato a favore della risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni unite che chiede l’evacuazione «completa, immediata e incondizionata» dei territori ucraini occupati dalle truppe russe.

Il voto brasiliano si è accompagnato a quello dei suoi partner regionali con presidenti di centrosinistra come Argentina (sotto la presidenza del Kirchnerista Alberto Fernandéz), Cile (Gabriel Boric), Messico (López Obrador) e Colombia (Gustavo Petro). Tutti hanno votato a favore della risoluzione che condanna la Russia in termini perentori. Al contrario, i membri dei Brics, Cina, India e Sudafrica si sono astenuti dal voto su quella stessa Risoluzione. Il presidente del Partido dos Trabalhadores, appena insediatosi per il suo terzo mandato dopo quattro anni di governo di estrema destra in Brasile, è in bilico tra la condanna formale dell’invasione russa del febbraio 2022 e il rifiuto di partecipare alle sanzioni economiche o di partecipare direttamente o indirettamente alla guerra in Ucraina.

Brasile favorevole al multilateralismo

Da alcuni decenni il Brasile chiede di essere incluso tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu portando come argomentazione l’evidenza che nel XXI secolo, con la maggiore distribuzione del potere decisionale nel mondo, non c’è più alcun motivo per cui stati come Francia e Regno Unito continuino a essere membri permanenti mentre Brasile e India non lo sono. Oltre a essere firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare, il Brasile aderisce anche al trattato istitutivo della Corte penale internazionale – alla quale, per inciso, l’ex presidente Bolsonaro (2019-22) è stato recentemente denunciato per crimini – contro le popolazioni indigene e le lotte ambientali in Amazzonia – commessi durante l’esercizio del mandato presidenziale.

Bolsonaro, un nostalgico dell’ultimo periodo della dittatura civico-militare in Brasile (1964-85), condivide con Putin affinità di valori come l’ultraconservatorismo religioso, la difesa del nucleo familiare e la riduzione della politica al paradigma della guerra. Nel febbraio 2022, quando Putin ha ordinato l’invasione su larga scala della nazione vicina, i media della destra organizzata in Brasile hanno iniziato a ritrarre Bolsonaro come un geniale stratega al fianco di Putin. Tuttavia le buone relazioni interpersonali tra i presidenti di Russia e Brasile non sono bastate a impedire allo Stato brasiliano di seguire la tradizione storica della Cancelleria brasiliana e votare contro l’invasione nella risoluzione n. ES-11/1.

Ora, a parte la posizione di condanna formale dell’invasione all’Onu, Lula cerca di non schierarsi né con Putin né con Zelensky, forse nella speranza di affermarsi come mediatore. La calibrata posizione di Lula è simile al ruolo di mediatore progettato nel 2009 quando istituì un gruppo parallelo con la Turchia per negoziare la riduzione delle scorte di uranio arricchito in Iran. In un’intervista rilasciata alla rivista Time, nel maggio 2022, Lula ha affermato che anche Zelensky è responsabile della situazione bellica e che il presidente ucraino deve cambiare atteggiamento nei confronti della guerra. Quest’anno, già insediato come presidente, rifiutandosi di fornire munizioni agli ucraini, Lula ha fatto appello al detto popolare che «quando uno non vuole, due non combattono», sottintendendo che nessuna delle due parti è interessata a tornare a il tavolo dei negoziati.

Il progetto di riportare il Brasile sulla mappa mondiale della diplomazia, invertendo così la tendenza isolazionista degli anni di Bolsonaro, ha portato Lula a proporre un «Club della pace», composto da Stati «neutrali», con i leader di Cina e Turchia, al fine di facilitare la ripresa dei colloqui diretti tra Russia e Ucraina. L’annuncio di Lula è stato festeggiato dai membri del Brics, compresa la Russia, nonché dai membri e sostenitori del Pt, che considerano Lula un importante attore globale che torna in servizio attivo. Tra gli alleati degli ucraini, a prima vista, solo Macron ha fatto cenno alla proposta di pace di Lula. Il presidente francese ha sottolineato  durante l’incontro del G20 a Nuova Delhi come le azioni unilaterali di Europa e Stati uniti nel sostegno economico e militare all’Ucraina li abbiano portati a «perdere la fiducia del Sud del mondo».

Interdipendenza russo-brasiliana

Dietro le dichiarazioni e gli umori ideologici di Lula e Bolsonaro c’è una ragione pratica più profonda che spiega la reticenza con cui lo Stato brasiliano si è posizionato nel conflitto: entrambi I presidenti hanno tra le loro basi parlamentari importanti settori legati all’agrobusiness, che corrisponde a un valore intorno al 26% circa del Pil e al 48% del totale delle esportazioni brasiliane, cioè 160 miliardi di dollari/anno. Nonostante il clima favorevole e l’abbondanza di terra, i suoli in Brasile sono generalmente poveri di nutrienti o esauriti da precedenti culture agrarie, una situazione simile a quella dell’Australia. La produttività agroalimentare è condizionata dall’uso massiccio dei fertilizzanti, in particolare fertilizzanti Npk (nitrati, fosfati, solfati), dei quali il Brasile è il più grande importatore al mondo. La Russia, che soddisfa il 22% della domanda brasiliana è attualmente – secondo i dati del 2022 – il maggior paese di provenienza dei prodotti. L’industria agricola brasiliana non si è preoccupata di sviluppare l’autosufficienza nella produzione di fertilizzanti, in quanto è sempre stata considerata un bene facilmente accessibile, quindi più conveniente acquistarla sul mercato globalizzato piuttosto che internalizzarne la filiera produttiva.

Bolsonaro è stato l’ultimo capo di stato a visitare ufficialmente il Cremlino, il 15 febbraio 2022, quando l’escalation delle tensioni al confine già faceva pensare a una drastica azione da parte della Russia. Anticipando l’inasprirsi delle sanzioni economiche alla Federazione Russa, in crescita dall’annessione della Crimea nel 2014, Bolsonaro si è preso cura dell’interesse dell’agrobusiness nel garantire l’afflusso di fertilizzanti russi, punto numero uno all’ordine del giorno dell’incontro tra i due presidenti. Oltre a importare un’enorme quantità di fertilizzanti Npk da fornitori russi, l’agrobusiness brasiliano esporta prodotti alimentari in Russia, riequilibrando così la bilancia del commercio bilaterale. All’epoca, anche con le tensioni internazionali sul punto di esplodere, con il visibile accumulo di truppe russe ai confini con l’Ucraina, Bolsonaro non ha avuto alcun timore asottolineare il «matrimonio perfetto» tra i due paesi e che «Putin cerca la pace».

Politicizzare il Sud globale

I limiti del governo brasiliano sono simili a quelli di altre economie emergenti con popolazioni più povere. Secondo il discorso del governo la principale riluttanza del Sud globale a farsi coinvolgere nel conflitto deriva dalla mancanza di margine politico o socioeconomico per i sacrifici delle loro stesse società. Ci sono problemi concreti di più immediato richiamo, come l’estrema povertà, la fame, la mancanza di servizi di base, la crisi della sanità pubblica, l’inflazione dei beni di prima necessità e l’intensificarsi dei conflitti sociali. Gli stati-nazione del Sud globale, dove si trova la maggior parte delle popolazioni rese vulnerabili dalla crisi, non potrebbero permettersi i costi derivanti da una guerra che non hanno iniziato né favorito con armi e discorsi bellicosi. E questo vale sia per i costi diretti, attraverso trasferimenti di materiali e armi o eventuali sostegni finanziari; sia di costi indiretti, derivanti dagli effetti collaterali delle sanzioni o dalle interruzioni nella delicata rete delle interdipendenze, che fanno lievitare i prezzi nel mercato globalizzato.

La percezione espressa dai leader degli stati del Sud del mondo, come Bolsonaro o Lula, è che i paesi più ricchi del Nord stiano monopolizzando l’agenda globale nei meeting, riunioni e nelle organizzazioni internazionali, a discapito delle priorità delle popolazioni più bisognose, che sono in maggioranza concentrate al di fuori dell’Europa. La loro critica si basa su un comune senso di sgomento e abbandono delle priorità più immediate delle società, mentre l’Europa e gli Stati uniti drenano gli sforzi internazionali per armare e aiutare l’Ucraina. Infatti, secondo i più acidi detrattori dello sforzo occidentale a sostegno della resistenza ucraina, se questa non fosse stata una guerra europea, combattuta in Europa e tra europei, non sarebbe stata dipinta con lo stesso sacrosanto carattere che le è stato attribuito dai media. Non sarebbe, secondo questa obiezione, trattata come uno spartiacque tra un prima e un dopo del corso della globalizzazione, come se le altre conflagrazioni mondiali, le guerre civili in corso e le catastrofi umanitarie, fossero diventate, da un giorno all’altro, mere appendici del confronto principale.

Sulla falsariga di questo ragionamento difensivo e reattivo, che pretende di parlare a nome dei poveri del Sud del mondo, Lula aderisce alle critiche nei confronti di stati con una lunga storia di interventi militari esterni, come gli Stati uniti, che non avrebbe il diritto morale di esigere da lui – presidente del Brasile – il sacrificio del «matrimonio perfetto» con la Russia, tanto meno di respingere i piani del Brasile di bilanciare il panel delle sue alleanze partecipando a un blocco alternativo a quello egemonico occidentale. Dicendo «no» sia ai partner Brics sia alle richieste di coinvolgimento più incisivo provenienti da Scholz o Biden, Lula vorrebbe riaprire uno sfogo geopolitico il cui analogo, ai tempi della Guerra fredda, erano state le iniziative di Nehru o Sukarno, che hanno portato alla conferenza dei paesi non allineati di Bandung nel 1955.

Tensioni, contraddizioni e dilemmi

Tuttavia l’intero blocco discorsivo sollevato dai governanti del Sud globale contiene una contraddizione. Sebbene sia tagliente nel discutere con i leader di Stati uniti, Germania o Francia, lo stesso non vale quando si rivolge alla giovane repubblica ucraina, il paese più povero dell’Europa orientale e con un passato coloniale che non è meno drammatico di quello delle popolazioni in America Latina o Africa. La solidarietà da manifestare tra Brasile e Ucraina sarebbe orizzontale, un’azione orientata per la ricostruzione dell’asse Sud-Sud dal basso, dalle popolazioni, indipendentemente dalle vecchie potenze mondiali (Usa) o aspiranti tali (Cina). Rispetto alla sua ex metropoli, l’Ucraina non cessa di essere un paese del Sud globale.

In un articolo del 1991, E.P. Thompson metteva in guardia su come l’uso dell’espressione «Terzo Mondo» in quel preciso momento fosse diventata vuota, diventando un pretesto per il relativismo culturale, perfino sentimentale. Come potrebbe Lula presentarsi come un messaggero di pace, alla guida di un paese storicamente impegnato per la giustizia internazionale e i diritti umani, e al tempo stesso porsi in una terra di mezzo tra oppressori e oppressi?

Questo significherebbe uscire dalla dicotomia occidente vs non-occidente, così comoda per il discorso antioccidentale della Russia di Putin, per riconoscere l’esistenza dei popoli ucraini come soggetti con una propria storia indipendente, capaci di elaborare un punto di vista sui processi di oppressione. Da un lato si eviterebbe l’ipocrita contrapposizione tra democrazie e autocrazie, come se la Turchia o l’Arabia Saudita, alleate di Usa e Nato, fossero stati democratici di diritto; d’altra parte non si cadrebbe in un altrettanto ipocrita relativismo che giustifica, ad esempio, non condannare apertamente le violazioni contro le minoranze e le opposizioni interne, come in Iran o in Nicaragua.

Un’altra questione problematica del discorso di Lula è quella dell’agrobusiness la cui espansione è responsabile dell’aumento della deforestazione in Amazzonia e della distruzione degli ecosistemi del cerrado (bioma del Brasile centrale, dove si produce soia e carne bovina). Per quanto oggi esista un marketing milionario volto a dimostrare la conciliazione virtuosa tra agrobusiness e ambiente, i movimenti ecosocialisti brasiliani non sono d’accordo e, al contrario, propongono un cambio di paradigma. L’asse della proposta della sinistra ambientalista è quella di sostituire il regime delle colossali piantagioni monocolturali con l’agricoltura contadina della piccola proprietà familiare, oltre a sostituire la presenza intensiva di transgenici e fertilizzanti lungo tutta la filiera produttiva con un’agricoltura biologica e sostenibile. Tuttavia, in questo frangente, una messa in discussione più diretta del settore agroalimentare metterebbe il governo sotto pressione sia dall’alto, dalle élites agrocapitaliste e dai loro rappresentati nei parlamenti, che dal basso, compromettendo il volume di entrate di valuta estera su cui conta il governo del Pt per aumentare il livello degli investimenti pubblici.

Vale la pena menzionare un ultimo dilemma riguardo la posizione di Lula sulla guerra. Legata alla tradizione della sinistra nazional-sviluppista latinoamericana, la tendenza predominante nel Partito dei Lavoratori è quella di identificare negli Stati uniti il rischio maggiore per le pretese brasiliane di leadership regionale e di sviluppo autonomo. Gli Stati uniti sarebbero il nemico principale, tenendo conto del passato della Dottrina Monroe, delle circostanze del colpo di stato del 1964 e delle analisi derivate dalle teorie marxiste della dipendenza o dello sviluppo ineguale. Tuttavia sarebbe necessaria un’analisi concreta della situazione concreta.

Avendo vissuto l’esperienza dell’invasione del Campidoglio degli Stati uniti da parte di trumpisti radicalizzati, il 6 gennaio 2021 Biden ha anticipato le articolazioni del colpo di stato in Brasile, inviando nel paese il direttore della Cia in persona altri emissari. Tra il 2021 e il 2022, gli inviati speciali del presidente democratico hanno incontrato membri del governo brasiliano, generali dell’esercito e lo stesso Bolsonaro, al fine di dissuaderli dai piani golpisti. Per convergenza di circostanze, ma con sviluppi importanti nei prossimi anni, Biden e Lula sono dalla stessa parte in difesa delle istituzioni della democrazia liberale, in guardia contro lo scoppio di rivolte antiliberali guidate dall’estrema destra organizzata (trumpista o bolsonarista).

Come previsto l’episodio brasiliano del Campidoglio si è svolto l’8 gennaio 2023 con l’invasione e il saccheggio degli edifici che ospitano i poteri dello Stato a Brasilia. Ma la montagna ha partorito un topolino. Con un sostegno timido e insufficiente da parte degli agenti delle forze di sicurezza o dei leader politici di destra, l’insurrezione dei bolsonaristi è stata smantellata e repressa in pochi giorni. In cambio della difesa della legittimità del risultato e dello stato di diritto in Brasile a inizio febbraio Lula si è recato ufficialmente alla Casa Bianca per sottolineare che, per quanto riguarda la difesa della democrazia contro la nuova destra autoritaria, sta con Biden e conta su di lui.

In definitiva la misura in cui la riconfigurazione delle sfere di azione esterne e interne del terzo governo Lula modificherà le posizioni del Brasile nella guerra in Ucraina è una questione aperta, oltre che terreno di ripoliticizzazione del Sud globale e del senso della democrazia oggi, in mezzo alle tendenze e agli antagonismi della globalizzazione in crisi.

*Bruno Cava, laureato in giurisprudenza e ingegneria, master in giurisprudenza alla Università dello Stato di Rio de Janeiro, scrive per diversi siti, con articoli pubblicati su OpendemocracyAl Jazeera, AlfabetaThe GuardianLe Monde Diplomatique e le riviste Multitudes e Chiméres. È autore di diversi libri, fra i quali A multidão foi ao deserto (Annablume, 2013), sulle giornate di giugno 2013 in Brasile.