Zbigniew Marcin Kowalewski
Sergej Nikolskij, filosofo russo esperto di cultura, sostiene che probabilmente il principale pensiero dei russi, «dalla caduta di Bisanzio ad oggi, è quello dell’Impero e che loro sono una nazione imperiale. Abbiamo sempre saputo di abitare un paese la cui storia è una catena ininterrotta di espansioni territoriali, di conquiste, di annessioni, della loro difesa, di perdite temporanee e di nuove conquiste. L’idea dell’Impero era una delle più preziose nel nostro bagaglio ideologico, ed è questa idea quelle che noi proclamiamo verso le altre nazioni. È grazie a questa che sorprendiamo, affasciniamo o facciamo impazzire il resto del mondo».
La prima e la principale caratteristica dell’Impero russo, rileva Nikolskij, è sempre stata «la massimizzazione dell’espansione territoriale in funzione degli interessi economici e politici come uno dei più importanti principi della politica statale».[1] L’espansione era conseguenza del predominio costante e schiacciante dello sviluppo estensivo della Russia rispetto al suo sviluppo intensivo: il predomino dello sfruttamento assoluto dei produttori diretti rispetto a quello relativo, vale a dire rispetto a quello basato sull’incremento della produttività del lavoro.
«L’Impero russo veniva definito “la prigione dei popoli”. Oggi sappiamo che non era solo lo Stato dei Romanov a meritare questa definizione», scriveva Michail Pokrovskij, importante storico bolscevico. Egli dimostrava come già il Granducato di Mosca (1263-1547) e lo Zarato di Russia (1547-1721) fossero “prigioni dei popoli” e come quegli Stati fossero sorti sui cadaveri degli “inorodcy”, i popoli indigeni non russi. «È discutibile che il fatto che nelle vene dei Grandi-Russi scorra l’80% del loro sangue possa costituire una consolazione per coloro che sono sopravvissuti. Solo il completo annientamento dell’oppressione grande-russa potrebbe costituire una sorta di compensazione di tutte le sue sofferenze per questa forza che ha lottato e continua a lottare contro qualsiasi oppressione».[2] Queste frasi di Pokrovskij sono state pubblicate nel 1933, subito dopo la sua morte e poco prima che, su richiesta di Stalin, nella storica formulazione dei bolscevichi “la Russia- prigione dei popoli”, il primo termine venisse sostituito da un altro: “lo zarismo”. Successivamente, il regime staliniano ha stigmatizzato il lavoro scientifico di Pokrovskij come «concezione antimarxista» della storia della Russia.[3]
Imperialismo militar-feudale
Per secoli, fino al crollo dell’Urss nel 1991, le popolazioni conquistate ed annesse dalla Russia hanno subito tre successive forme di dominazione imperialista russa. «L’imperialismo militar-feudale» fu la prima, richiamata dallo stesso Lenin. Non è inutile discutere quale modo di sfruttamento vi predominasse: quello feudale o tributario, oppure ancora, come preferisce Jurij Semenov, “politario”.[4] Questo dibattito è reso attuale dalle più recenti ricerche di Alexander Etkind, da cui risulta come, all’epoca, a dominare fossero modi di sfruttamento coloniale: «sia entro i suoi confini remoti sia nella più cupa profondità, l’Impero russo era un immenso sistema coloniale»; «un Impero coloniale come la Gran-Bretagna o l’Austria, ma al tempo stesso un territorio colonizzato, come il Congo o le Indie occidentali». L’interessante è che «la Russia, espandendosi ed assorbendo vastissimi spazi, colonizzava il proprio popolo. Si trattava di un processo di colonizzazione interna, una colonizzazione secondaria del proprio territorio».
Per questo motivo, spiega Etkind, bisogna «concepire l’imperialismo russo non solo come un processo esterno, ma anche come processo interno».[5] Il rapporto servile – generalizzato per legge nel 1649 – vi assumeva un carattere coloniale, come la schiavitù dei Neri in America settentrionale, ma riguardava i contadini grandi-russi come altri considerati “russi” dallo zarismo: i contadini “piccolo-russi” (ucraini ) e bielorussi. Etkind richiama l’attenzione sul fatto che, nella stessa Grande-Russia, le insurrezioni contadine avevano un carattere anticoloniale e le guerre con cui l’Impero schiacciava quelle rivolte erano guerre coloniali. Paradossalmente, il centro imperiale della Russia era al tempo stesso una periferia coloniale interna, entro la quale lo sfruttamento e l’oppressione delle masse popolari erano più severi che non in tante periferie coloniali conquistate ed annesse.
Quando è comparso «il moderno imperialismo capitalistico», Lenin scriveva che era «avviluppato, per così dire, in una rete molto stretta di rapporti precapitalistici», così stretta che «quel che, in generale, predominava in Russia era l’imperialismo militar-feudale». Per questa ragione, scriveva, «in Russia il monopolio della forza militare, di un immenso territorio, o di condizioni particolarmente favorevoli per il saccheggio di popoli indigeni non-russi, la Cina ecc., completa in parte e in parte sostituisce il monopolio del moderno capitale finanziario».[6] Al tempo stesso, in quanto imperialismo della meno sviluppata delle sei maggiori potenze, era soltanto un sub-imperialismo. Come rilevava Trockij, «la Russia pagava così il diritto di essere alleata dei paesi avanzati, di importare capitali e versarne gli interessi, vale a dire, insomma, il diritto di essere una colonia privilegiata dei suoi alleati; ma, al tempo steso, acquisiva il diritto di opprimere e di spogliare la Turchia, la Persia, la Galizia e, in generale, paesi più deboli, più arretrati di lei. L’equivoco imperialismo della borghesia russa aveva, in fondo, i tratti di un’agenzia al servizio delle maggiori potenze mondiali».[7]
Niente decolonizzazione senza separazione
Sono appunto i potenti monopoli extra-economici menzionati da Lenin ad aver garantito all’imperialismo russo la continuità dopo il rovesciamento del capitalismo in Russia grazie alla Rivoluzione d’Ottobre. Contrariamente ai precedenti annunci di Lenin che la norma della rivoluzione socialista sarebbe stata l’indipendenza delle colonie, soltanto quelle non raggiunte dalla Rivoluzione russa, o che l’avevano rifiutata, si sono separate dalla Russia. In numerose regioni periferiche, l’estensione della Rivoluzione aveva il carattere di “rivoluzione coloniale”, guidata dai coloni e dai soldati russi senza la partecipazione dei popoli oppressi, o addirittura con il mantenimento dei rapporti coloniali esistenti. Georgij Safarov ha descritto questo andamento della rivoluzione in Turkestan.[8] Altrove, essa presentava la natura di conquista militare, e alcuni bolscevichi (Michail Tuchačevskij) hanno elaborato ben presto una teoria militarista della «rivoluzione portata dall’esterno».[9]
La storia della Russia sovietica ha smentito il pensiero dei bolscevichi secondo cui, con il rovesciamento dei capitalismo, i rapporti di dominazione coloniale di certi popoli su altri sarebbero scomparsi e che, quindi, questi popoli avrebbero potuto, e anche dovuto, rimanere nel quadro di un unico Stato. «L’economicismo imperialista», che negava il diritto dei popoli a disporre di se stessi e che (criticato da Lenin) si diffondeva tra i bolscevichi russi, ne costituì un’espressione estrema. In realtà, è tutto il contrario: la separazione statuale di un popolo oppresso è la precondizione della distruzione dei rapporti coloniali, anche se non la garantisce. Vasyl Šachraj, militante bolscevico della rivoluzione ucraina, lo aveva capito già dal 1918 e aveva polemizzato apertamente con Lenin su questa questione.[10] Tanti altri comunisti non russi lo hanno capito all’epoca, in particolare il dirigente della rivoluzione tatara Mirsaid Sultan Galijev. È stato il primo comunista estromesso dalla vita politica pubblica su richiesta di Stalin, fin dal 1923.
In realtà, l’imperialismo basato sui monopoli extra-economici richiamati da Lenin si riproduce, spontaneamente e senza essere avvertito, in molteplici forme, anche quando perde le sue basi specificamente capitalistiche. Per questo, come dimostrava Trockij negli anni 1920, Stalin «è diventato il portatore dell’oppressione nazionale grande-russa» ed ha rapidamente «garantito il predominio dell’imperialismo burocratico grande-russo».[11] Con l’instaurazione del regime staliniano, si è assistito alla restaurazione della dominazione imperialista della Russia su tutti quei popoli, già conquistati e colonizzati, che sono rimasti entro i confini dell’Urss dove costituivano la metà della popolazione, come pure sui nuovi protettorati: Mongolia e Tuva.
Ascesa dell’imperialismo burocratico
Questa restaurazione era affiancata da una violenza poliziesca micidiale e addirittura genocida – dallo sterminio per fame noto in Ucraina come il Holodomor e in Kazakhstan come il Žasandy Ašaršylyk (1932-1933). I quadri bolscevichi e l’intellighenzia nazionali furono sterminati e si avviò un’intensiva russificazione. Interi piccoli popoli e minoranze nazionali sono stati deportati (la prima grande deportazione ha investito nel 1937 i coreani che vivevano nell’Estremo Oriente sovietico). Il colonialismo interno si è ulteriormente diffuso e «l’esempio più spaventoso di simili pratiche fu lo sfruttamento dei prigionieri del Gulag, descrivibile come forma estrema della colonizzazione interna».[12] Come sotto lo zarismo, l’immigrazione della popolazione russa e russofona verso le periferie placava le tensioni e le crisi economico-sociali in Russia, garantendo al contempo la russificazione delle repubbliche periferiche. Sovrappopolata, depauperata e affamata in seguito alla collettivizzazione forzata, la campagna russa esportava massicciamente forza lavoro verso i nuovi centri industriali alla periferia dell’Urss. Al tempo stesso, le autorità vietavano la migrazione della popolazione locale – non russa – delle campagne verso le città.
La divisione coloniale del lavoro deformava, quando non impediva, lo sviluppo, a volte trasformando le repubbliche e le regioni periferiche in fonti di materie prime e in zone di monocoltura. Questo andava insieme alla divisione coloniale fra città e campagna, lavoro fisico e lavoro intellettuale, qualificato e non, bene o mal retribuito, nonché alla stratificazione, anch’essa coloniale, della burocrazia statale, della classe operaia e di società intere. Divisioni e stratificazioni garantivano agli elementi etnicamente russi e russificati posizioni di privilegio rispetto all’accesso ai redditi, alle qualifiche, al prestigio e al potere nelle repubbliche periferiche. Il riconoscimento dell’essere etnicamente o linguisticamente “russi” [della “russità”] in forma di «salario pubblico o psicologico» (un concetto che David Roediger ha ripreso da W.E. B. Du Bois e applicato nei suoi studi sul proletariato bianco americano)[13] è diventato un importante strumento della dominazione imperialista russa e della costruzione di una “russità” imperialista all’interno stesso della classe operaia sovietica.
Nel corso della Seconda Guerra mondiale, la partecipazione della burocrazia staliniana alla lotta per una nuova spartizione del mondo era la proiezione della politica interna imperialista. Durante la guerra e alla fine di questa, l’Unione sovietica ha recuperato gran parte di quel che la Russia aveva perso dopo la rivoluzione, conquistando anche altri territori. La sua superficie si è estesa di oltre 1,2 milioni di km2. Dopo la guerra, la superficie dell’Urss superava di 700.000 km2 quella dell’Impero zarista al termine della sua esistenza, ed era più piccola di 1,3 milioni di km2 rispetto alla superficie di quell’Impero all’apice della sua espansione (nel 1886, subito dopo la conquista del Turkestan e poco prima della vendita dell’Alaska).
In lotta per una nuova spartizione del mondo
In Europa, l’Unione Sovietica ha incorporato le regioni occidentali della Bielorussia e dell’Ucraina, l’Ucraina subcarpatica, la Bessarabia, la Lituania, l’Estonia, una parte della Prussia orientale e della Finlandia e, in Asia, il Tuva e le Kurili meridionali. Il suo controllo si è esteso su tutta l’Europa orientale. L’Urss ha richiesto che la Libia fosse sottoposta alla sua tutela. Ha cercato di imporre il proprio protettorato sulle grandi province cinesi confinanti: il Xinjiang e la Manciuria. Per giunta, voleva annettere l’Iran settentrionale e la Turchia orientale, sfruttando allo scopo l’aspirazione alla liberazione e all’unificazione di molte popolazioni locali. Stando allo storico azerbaigiano Džamil Hasanly, è in Asia e non in Europa che è cominciata la “guerra fredda”, fin dal 1945.[14]
«Appena le condizioni politiche lo consentono, la natura parassitaria della burocrazia si manifesta nel saccheggio imperialista», scriveva all’epoca Jan van Heijenoort, ex segretario di Trockij e futuro storico della logica matematica. «La comparsa di elementi dell’imperialismo implica forse la revisione della teoria secondo cui l’Urss è uno Stato operaio degenerato? Non necessariamente. La burocrazia sovietica si nutre in genere dell’appropriazione di lavoro altrui, cosa che da tempo noi abbiamo ritenuto inerente alla degenerazione dello Stato operaio. L’imperialismo burocratico non è che una forma di questa appropriazione.[15]
I comunisti jugoslavi hanno acquisito ben presto la convinzione che Mosca «volesse sottomettere completamente a sé l’economia jugoslava e farne una semplice appendice che fornisse le materie prime all’economia dell’Urss, cosa che avrebbe frenato l’industrializzazione e sconvolto lo sviluppo socialista del paese.[16] Le “società miste” sovietico-jugoslave dovevano monopolizzare lo sfruttamento delle ricchezze naturali della Jugoslavia che servivano all’industria sovietica. Lo scambio commerciale ineguale tra i due paesi doveva garantire all’economia sovietica sovraprofitti ai danni di quella jugoslava.
Dopo la rottura della Jugoslavia con Stalin, Josip Broz Tito disse che, a partire dal Patto Ribbentrop-Molotov (1939) e soprattutto dopo la Conferenza dei “Tre Grandi” a Teheran (1943), l’Urss partecipa alla divisione imperialista del mondo e «prosegue consapevolmente per la vecchia strada zarista di espansionismo imperialista». Diceva anche che la «teoria del popolo dirigente in seno a uno Stato multinazionale» proclamata da Stalin «altro non è che la manifestazione del dato di fatto della sottomissione, dell’oppressione nazionale e del saccheggio economico degli altri popoli e paesi da parte del popolo dirigente».[17] Nel 1958, Mao Zedong ironizzava discutendo con Chruščev: «C’era un certo Stalin che ha preso Port Arthur, ha trasformato il Xinjiang e la Manciuria in semicolonie e ha formato quattro società miste. Erano queste le sue buone azioni».[18]
L’Unione Sovietica sull’orlo dell’esplosione
L’imperialismo burocratico russo si sorreggeva su potenti monopoli extra-economici, ulteriormente rafforzati dal potere totalitario. La loro natura era però esclusivamente extra-economica, per cui si è dimostrato troppo debole o decisamente non in grado di realizzare i piani stalinisti di sfruttamento dei paesi satelliti dell’Europa orientale e delle confinanti regioni della Cina popolare. Di fronte alla crescente resistenza di questi paesi, la burocrazia del Cremlino ha dovuto abbandonare le “società-miste”, lo scambio commerciale ineguale e la divisione coloniale del lavoro che voleva imporre. Dopo la perdita della Jugoslavia, a partire dal 1948, ha perso progressivamente il controllo politico sulla Cina e alcuni altri Stati, e ha anche dovuto ridurre il controllo sugli altri.
Anche in seno all’Urss i monopoli extra-economici sono risultati incapaci di garantire a lungo termine il predominio imperialista della Russia sulle principali repubbliche periferiche. L’industrializzazione, l’urbanizzazione, lo sviluppo dell’istruzione e, più in generale, l’ammodernamento delle periferie dell’Urss, nonché la crescente “nazionalizzazione” della loro classe operaia, dell’intellighenzia e della stessa burocrazia hanno cominciato a mutare progressivamente i rapporti di forza tra la Russia e le repubbliche periferiche a vantaggio di queste ultime. La dominazione di Mosca su di esse si andava indebolendo. La crisi crescente del sistema ha accelerato il processo e ha cominciato a dilaniare l’Unione Sovietica. Le contromisure del potere centrale – ad esempio il rovesciamento del regime di Petro Šelest in Ucraina (1972), considerato “nazionalista” dal Cremlino – non riuscivano più a invertire il processo né a frenarlo in maniera efficace.
Durante la seconda metà degli anni Settanta, il giovane sociologo sovietico Franc Šeregi cercava di osservare la realtà sovietica basandosi sulla «teoria delle classi di Marx, combinata con quella dei sistemi coloniali». Concludeva così che «la progressiva estensione dell’intellighenzia e della burocrazia (dei funzionari) nazionali delle repubbliche non-russe, la crescita della classe operaia – in una parola, la formazione di una struttura sociale più avanzata – avrebbero portato le repubbliche nazionali a separarsi dall’Urss». Alcuni anni dopo, su richiesta delle maggiori autorità del Partito comunista sovietico, ha studiato la condizione sociale delle squadre di giovani mobilitate dal Comsomol in tutto lo Stato per costruire la Ferrovia Bajkal-Amur. Si trattava della famosa “opera del secolo”.
«Mi sono occupato», racconta Šeregi, «della contraddizione che ho scoperto tra l’informazione sulla composizione internazionale dei costruttori della magistrale, diffusa con forza dalla propaganda ufficiale, e l’elevato livello di uniformità nazionale delle brigate di costruzione che sono arrivate. Queste erano quasi unicamente composte da elementi etnicamente o linguisticamente russi. «Sono allora giunto all’inaspettata conclusione che i Russi (e i “russofoni”) sono respinti dalla repubbliche nazionali», respinti dalle repubbliche cosiddette titolari, ad esempio in Kazachistan dai kazachi. Questo è stato confermato da ricerche da lui condotte in altri grandi cantieri in Russia. «Il potere centrale lo sapeva e partecipava al reinsediamento dei Russi finanziando i “grandi lavori” spettacolari. Ne deduco che essendosi ridotti i fondi sociali delle repubbliche nazionali, mancano posti di lavoro per i rappresentanti delle nazionalità titolari laddove esistono garanzie sociali (nidi, case di vacanze, sanatori, possibilità di avere un alloggio); una simile situazione può provocare antagonismi interetnici, per cui le autorità “rimpatriano” gradatamente la gioventù russa dalle repubbliche nazionali. Ho preso allora coscienza che l’Urss è sull’orlo dell’esplosione».[19]
Impero militar-coloniale
La crisi del regime burocratico sovietico e dell’imperialismo russo era così grave che, con generale sorpresa, l’Urss è crollata nel 1991, non solo senza una guerra mondiale, ma anche senza una guerra civile. La Russia ha perso completamente le sue periferie esterne, perché 14 repubbliche non russe dell’Unione l’hanno abbandonata e hanno proclamato l’indipendenza (tutte quelle che, secondo la Costituzione sovietica, ne avevano il diritto). Questo voleva dire la perdita di territori senza precedenti nella storia della Russia, di una superficie di 5,3 milioni di km2. Tuttavia, come nota Boris Rodoman, eminente scienziato che ha creato la scuola russa di geografia teorica, ancora oggi «la Russia è un impero militar-coloniale, che vive a spese del saccheggio sfrenato delle risorse naturale e umane, un paese dallo sviluppo estensivo, in cui lo sfruttamento estremamente dilapidatore e costoso della terra e della natura è un fenomeno corrente». In questo ambito, come per quel che riguarda «le migrazioni delle popolazioni, i rapporti reciproci tra i gruppi etnici, tra gli abitanti e i migranti in diverse regioni, tra le autorità statali e la popolazione, i tratti “classici” tipici del colonialismo rimangono vivi, come in passato».
La Russia è restata uno Stato plurinazionale. Comprende 21 repubbliche di popoli non russi che si estendono sul 30% circa del suo territorio. Rodoman scrive: «Nel nostro paese abbiamo un gruppo etnico che ne porta il nome e gli fornisce la lingua ufficiale, così come un gran numero di altri gruppi etnici; alcuni di essi dispongono di un’autonomia nazional-territoriale, ma non hanno il diritto di abbandonare questa pseudo-federazione, sono cioè costretti a rimanervi. Sempre più spesso l’esigenza che esistano distinte unità amministrative concordanti con gli criteri etnici viene rimessa in discussione. Il processo della loro liquidazione è già cominciato con quella dei distretti autonomi. Eppure, nessun popolo non russo ha cominciato ad abitare in Russia in seguito a una migrazione; non si sono reinsediati in uno Stato russo preesistente – al contrario, sono popoli conquistati da questo Stato, respinti, parzialmente sterminati, assimilati o privati del loro Stato. In un simile contesto storico, le autonomie nazionali, anche a prescindere da fino a che punto siano reali e fino a che punto solo nominali, vanno percepite come una compensazione morale per i gruppi etnici che hanno subito il “trauma di essere stati soggiogati”. Nel nostro pese, i piccoli popoli senza autonomia nazionale, o privati di questa, scompaiono rapidamente (per esempio i Vepsi e i Šori [due popolazioni di ceppo finnico la prima, turco la seconda]). Agli inizi del periodo sovietico, i gruppi etnici autoctoni erano maggioritari nelle entità nazionali autonome. Oggi sono minoritari in seguito alla colonizzazione, connessa all’appropriazione delle risorse naturali, alle grandi opere, all’industrializzazione e alla militarizzazione. La colonizzazione delle “terre incolte”, la costruzione di taluni porti e delle centrali nucleari nelle repubbliche baltiche, ecc., non dipendevano soltanto da ragioni economiche, ma avevano anche lo scopo della russificazione dei territori frontalieri dell’Unione Sovietica. Dopo il crollo di quest’ultima, i conflitti militari nel Caucaso, i cui popoli sono presi in ostaggio dalla politica imperiale del “divide et impera”, sono tipiche guerre per preservare le colonie in un impero che si disintegra. L’estensione della sua sfera d’influenza, tra cui l’inserimento di parti dell’ex-Urss, è oggi parte integrante della politica estera russa. Nel XVII e XVIII secolo, nella Russia zarista, le tribù nomadi dichiaravano obbedienza al imperatore e così le loro terre diventavano russe automaticamente; la Russia post-sovietica distribuisce passaporti russi agli abitanti dei paesi di confine…».[20]
Restaurazione dell’imperialismo capitalista
La restaurazione capitalistica in Russia ha parzialmente completato e parzialmente sostituito i monopoli extra-economici, indeboliti e stroncati dopo l’esplosione dell’Urss, con un potente monopolio del capitale finanziario saldato all’apparato statale. L’imperialismo russo ricostruito su questa base rimane un fenomeno indissolubilmente interno ed esterno, operante da una parte e dall’altra dei confini della Russia, che riprendono ad essere mobili. Le autorità hanno costruito una mega-corporazione statale, che avrà il monopolio della colonizzazione interna della Siberia orientale e dell’Estremo Oriente. Queste regioni possiedono campi petroliferi e altre grandi ricchezze. Hanno un accesso privilegiato ai nuovi mercati mondiali in Cina e nell’emisfero occidentale.
Le due aree summenzionate rischiano di condividere le sorti della Siberia occidentale: «Il centro federale si riserva quasi per intero le rendite petrolifere dell’occidente siberiano, non concedendo alla Siberia occidentale neanche il denaro per la costruzione di normali strade», scriveva qualche anno fa il giornalista russo Artem Efimov. «La disgrazia, come al solito, non è la colonizzazione, ma il colonialismo», perché «è lo sfruttamento economico, non il riassetto e lo sviluppo del territorio, lo scopo della suddetta corporazione». «In sostanza questo equivale ad ammettere che nel paese, al massimo livello dello Stato, regna il colonialismo. La somiglianza di questa corporazione con la Compagnia britannica delle Indie orientali e con le altre compagnie coloniali europee dei secoli XVII-XIX è così evidente da poter essere anche divertente».[21]
Un anno fa, la sollevazione in massa degli ucraini sul Majdan a Kiev, coronata dal rovesciamento del regime di Janukovyč, costituiva un tentativo dell’Ucraina di rompere definitivamente il rapporto coloniale che storicamente la legava alla Russia. È impossibile capire l’attuale crisi ucraina – l’annessione della Crimea, la rivolta separatista nel Donbass e l’aggressione russa all’Ucraina – se non si capisce che la Russia è ancora e sempre un paese imperialista.
Traduzione di Titti Pierini
Zbigniew Marcin Kowalewski, vice-caporedattore dell’edizione polacca di Le Monde diplomatique - dal cui n. 11 del novembre 2014 è stato ripreso da giornale elettronico francese Mediapart l’articolo qui riportato - è autore di vari lavori sulla storia del problema nazionale ucraino, pubblicati tra l’altro dall’Accademia nazionale delle Scienze dell’Ucraina.
Notes
[1] S.A. Nikolskij, “Russkie kak imperskij narod”, in Političeskaja Konceptologija, n.1, 2014, pp. 42-43.
[2] M.N. Pokrovskij, Istoričeskaja nauka i borba klassov, vol. I, Socekizd, Mosca-Leningrado, 1933. p. 284.
[3] A.M. Dubrovskij, Istorik i vlast, Izdatelstvo Brianskogo Gosudarstvennogo Universiteta, Briansk, 2005, pp. 238, 315-335.
[4] Cfr. J. Haldon, The State and the Tributary Mode of Production, Verso, Londra-New York, 1993; Ju.I. Semenov, Politarnyj (“aziatskij”) sposob proizvodstva: Suščnost i mesto v istorii čelovečestva i Rossii, Librokom, Mosca, 2011.
[5] A. Etkind, Internal Colonization: Russian Imperial Experience, Polity Press, Cambridge-Malden, 2011, pp. 24, 26, 250-251.
[6] V.I. Lenin, Polnoe sobranije sočinenij, Izdatelstvo Političeskoj Literatury, Mosca 1969; 1973, vol. XXVI, p. 318; vol. XXVIII, p. 378; vol. XXX, p. 174.
[7] L. Trotsky, Histoire de la Révolution russe, Seuil, Parigi, 1967, p. 53 [tr. it.: Storia della rivoluzione russa, SugarCo, Milano 1986].
[8] G. Safarov, Kolonialnaja revolucija: Opyt Turkestana, Gosizdat, Mosca, 1921.
[9] M. Tuchačevskij, Vojna klassov, Gosizdat, Mosca, 1921, pp. 50-59 (tr. inglese: M. Tukhachevsky, “Revolution from Without”, in New Left Review, n. 55, 1969.
[10] S. Mazlakh, V. Shakhrai, On the Current Situation in the Ukraine, Ann Arbor; University of Michigan Press, 1970.
[11] L. Trockij, Stalin, Lenizdar, San Pietroburgo, 2007, vol. II, p. 189. [tr. it.: Stalin, Garzanti, Milano, 1947].
[12] A. Etkind, D. Uffelmann, I. Kukulin (a cura di), Tam vnutri: Praktiki vnutrennej kolonizacii v kulturnoj istorii Rossii, Novoje Literaturnoje Obozrenije, Mosca, 2012, p. 29.
[13] Cfr. D. Roediger, The Wages of Whiteness: Race and the Making of American Working Class, Verso, Londra-New York, 2007.
[14] J. Hasanli, At the Dawn of the Cold War: The Soviet-American Crisis over Iranian Azerbaijan, 1941-1946, Rowman and Littlefield, Lanham-New York, 2006; Id., Stalin and the Turkish Crisis of the Cold War, 1945-1953, Lexington Books, Lanham-New York, 2011.
[15] D. Logan [J. Van Heijenoort], “The Eruption of Bureaucratic Imperialism”, in The New International, vol. XII, n. 3, 1946, pp. 74, 76.
[16] V. Dedijer, Novi prilozi za biografiju Josipa Broza Tita, Liburnija, Rijeka, 1981, t. I, p. 434.
[17] J. Broz Tito, “H kritiki stalinizma”, in Časopis za Kritiko Znanosti, Domišljijo in Novo Antropologijo, vol. VIII, nn. 39-40, 1980, pp. 157-164, 172-185.
[18] V. M. Zubok, “The Mao-Khrushchev Conversations, 31 July-3 August 1958 and 2 October 1959”, in Cold War International History Project Bulletin, nn. 12-13, 2001, p. 254.
[19] B. Doktorov, “Šeregi F.E.: ‘Togda ja prišel k vyvodu: SSR stoit pered raspadom’”, in Teleskop: Žurnal Sociologičeskich i Marketingovych Issledovanii, n. 5 (65), 2007, pp. 10-11.
[20] B. B. Rodoman, “Vnutrennyj kolonializm v sovremennoj Rossii”, in T. I. Zaslavkaja (a cura di), Kuda idet Rossija? Socjalnaja trasformacija postsoveckogo prostranstva, Aspekt-Press, Mosca, 1996, p. 94; Id., “Strana permanentnogo kolonializma”, in Zdravyj Smysl, n. 1 (50), 2008-009, p. 38.
[21] A. Efimov, “Ost-Rossijskaja kompanija”, In Lenta.ru, 23 aprile 2012.