Francesco Brusa Volodymyr Artiukh
La guerra che la Russia ha scatenato in Ucraina ha spaccato la sinistra internazionale, di cui alcuni settori faticano a metabolizzare il crollo dell’Unione Sovietica. L’URSS e il suo apparato simbolico sono stati usati nei Paesi ex sovietici come strumento per criticare il presente ma alla fine chi si è davvero appropriato di quell’eredità piegandola ai suoi scopi è stato Vladimir Putin. Questa l’analisi di Volodymyr Artiukh, ricercatore, sociologo e attivista ucraino.
La guerra di Putin in Ucraina sembra aver spaccato come pochi altri eventi la sinistra internazionale. Ancora dopo quasi un anno e mezzo dall’invasione su larga scala, non esiste un’opinione comune su quale debba essere la posizione dei partiti e delle forze socialiste, comuniste e social-democratiche. Alcuni hanno deciso di appoggiare senza remore il sostegno anche militare al Paese aggredito, altri chiedono lo stop all’invio di armi e promuovono iniziative per un negoziato che lasci intatte le conquiste russe, mentre altri ancora sostengono che le responsabilità per lo scoppio del conflitto vadano ricercate nelle politiche del governo ucraino oppure in quelle degli Stati Uniti e che sia dunque solo in potere di questi ultimi fermare la guerra.
L’impressione è anzi che molte volte si discuta senza che esistano dei minimi punti di realtà condivisa: narrazioni e interpretazioni di segno opposto si rincorrono, le accuse di fascismo e le rivendicazioni di antifascismo si sprecano con riferimento sia a una parte che all’altra. Come mai questa discrepanza radicale di visione sugli eventi est-europei? Pesa, probabilmente, una mancata rielaborazione collettiva di cosa abbia significato il crollo dell’URSS nel biennio ‘89-‘91. Pesa, anche, una scarsa conoscenza e il poco dibattito sul tipo di forze politiche che hanno riempito quel “vuoto” negli Stati che si sono andati formando a Est, laddove la maggioranza dei partiti che si definivano “comunisti” e “socialisti” ha assunto in realtà dei tratti fortemente populistico-clientelari e posizioni estremamente conservatrici dal punto di vista sociale.
D’altro canto, c’è anche chi da una prospettiva extraparlamentare e più “di movimento”, ha provato e ancora prova a utilizzare e reinterpretare l’eredità sovietica in ottica progressista ed emancipatoria, sia a livello teorico che di simbologia. Questo nonostante (o forse proprio perché) su quell’eredità gravi comunque uno stigma non da poco in diversi contesti est-europei, che non ha fatto che intensificarsi per via della guerra in corso: nello specifico dell’Ucraina, per esempio, giova ricordare le leggi di de-comunistizzazione del 2015 e, in seguito al conflitto del Donbas, la messa al bando delle forze partitiche comuniste, fino ad arrivare, in seguito all’invasione, alla progressiva eliminazione dei riferimenti al passato di “dominazione russa”. Come orientarsi dunque in un contesto simile? In che modo valutare il fenomeno della “nostalgia sovietica” che (accanto alla “Ostalgia” nella ex-Germania dell’Est o alla “Jugostalgia” nei Balcani) ha contribuito a modellare la scena politica in Ucraina, Russia e Bielorussia? Più in generale, che farsene oggi – mentre la guerra lanciata da Putin infuria e miete vittime – dell’eredità sovietica a sinistra? Abbiamo provato a discuterne con Volodymyr Artiukh, ricercatore, sociologo e attivista ucraino, membro della redazione di Commons.
Fin dal crollo dell’urss, il contesto politico est-europeo è stato segnato dal fenomeno della “nostalgia sovietica” o comunque da un panorama per cui, se da una parte diverse sigle e partiti hanno continuato a far riferimento all’eredità sovietica in termini di simbologia e programmi, dall’altro su quell’eredità gravava (in misura più o meno forte a seconda dei paesi) un certo stigma. Come riassumerebbe queste dinamiche? In che modo la sinistra si è rapportata a tutto ciò?
Per quanto riguarda i partiti “socialisti” e “comunisti” attivi dopo l’‘89, il retroterra marxista e nostalgico dell‘unione sovietica costituì fin da subito un elemento su cui improntare la propria partecipazione al “mercato politico” che era andato creandosi negli anni novanta e 2000. Che tipo di panorama politico si trovavano di fronte? Un panorama in cui fra partiti ed elettori dominavano soprattutto relazioni di tipo clientelare e patrimoniale, rispetto alle dinamiche di mobilitazione e di costruzione del consenso più “classiche” e proprie di una democrazia rappresentativa. Credo, dal mio punto di vista, che queste forze politiche si siano dunque preoccupate di entrare a far parte di queste relazioni, utilizzando la simbologia e alcuni elementi del periodo sovietico per marcare una distinzione rispetto al resto dello spettro politico, per costruire attorno a sé una nicchia di riconoscibilità. Insomma, la falce e il martello e l’appellativo “comunista” o “socialista” erano in sostanza tratti identitari, che poco avevano a che fare con l’esistenza di una qualche strategia rivoluzionaria o con la volontà di cambiare il sistema e il “mercato politico” in cui si trovavano ad agire.
In russia, questa evoluzione è stata evidente: al partito comunista della federazione russa e al suo leader gennadij andreevič zjuganov venne offerto di occupare un ruolo molto specifico nell’arena politica, ovvero quello di “opposizione controllata”. Vale a dire un tipo di opposizione che non avrebbe in alcun modo messo in discussione il governo ma che ne avrebbe lievemente criticato l’operato soprattutto in merito alle politiche sociali, essendo così in grado di assorbire buona parte dell’indignazione e della protesta popolare e anche di addomesticare queste ultime, contenendole e incanalandole verso forme meno minacciose per il potere vigente.
La situazione in ucraina in una qualche misura era diversa: dopo l’inizio della guerra in donbas, i partiti che si rifacevano all’eredità dell’unione sovietica sono stati “sequestrati”, com’è il caso del partito socialista, che venne svuotato di qualsiasi contenuto o progettualità politica per via del fatto che quasi tutti i suoi membri erano legati agli interessi di diversi imprenditori politici, oppure messi fuori legge, come il partito comunista, che è finito col ritrovarsi privo di ogni funzione politica dopo un lungo processo di accusa per l’uso della simbologia sovietica. Recentemente, il leader del partito comunista petro mykolayovych symonenko è stato notato al cosiddetto “congresso antifascista” che si è tenuto qualche mese fa a minsk e andava sostanzialmente ripetendo i punti della propaganda di putin contro l’ucraina. Si tratta della sua evoluzione naturale, date le premesse: è un partito che sostanzialmente ha logorato la memoria dell’unione sovietica trasformandola in una forma di “capitale politico” puramente simbolico, che risultava tra l’altro essere completamente privo di mordente nel contesto del funzionamento sociale degli stati post-sovietici.
Ciò che invece è successo grosso modo con la sinistra a-partitica nei contesti post-sovietici è che le varie sigle e gruppi non sono riusciti a elaborare e offrire alla popolazione niente più che la critica al “capitalismo periferico” che dominava nei nostri paesi: i loro principali nemici erano liberali e nazionalisti. In questo contesto, si sono serviti della memoria e della simbologia sovietica come forma di mobilitazione e come mezzo per criticare l’ideologia dominante e ottenere un supporto di massa. Ma è un progetto politico che è in larga parte fallito, soprattutto perché l’appello alla memoria dell’unione sovietica non si è accompagnato all’elaborazione di una qualche visione per il futuro collettivo, fondata su un lavoro approfondito di analisi teorica della congiuntura in cui l’ucraina e altri paesi si trovavano. Non hanno saputo insomma offrire un programma che affrontasse le contraddizioni della condizione attuale ma che facesse anche intravedere un’idea di futuro migliore per la maggioranza delle persone. Il materiale della nostalgia sovietica ha di fatto creato una sorta di “sindrome olandese” ideologica per la sinistra extraparlamentare: proprio come il gas e il petrolio, si trattava di una risorsa facile per guadagnare profitto in termini di consenso politico. Ed ecco che, proprio come quando è possibile estrarre facilmente profitto dallo sfruttamento delle materie prime e non si genera perciò una spinta a investire nello sviluppo tecnologico o nel capitale umano e nell’educazione, per la sinistra si è assistito a una dinamica simile in relazione alla nostalgia sovietica: dal momento che c’era questo immaginario sovietico o para-sovietico pronto all’uso, ci si è accomodati su un tale immaginario senza preoccuparsi di costruirne uno nuovo, per non dire un programma politico concreto orientato al futuro. Dunque, per riassumere, dal mio punto di vista per entrambe le forze di sinistra (sia quella parlamentare che non) la nostalgia sovietica ha svolto un ruolo negativo. Non in tutto e per tutto negativo, intendiamoci: come ogni fenomeno storico, si è trattato comunque un processo contraddittorio.
Nello specifico dell’ucraina, le proteste di euromaidan del 2013/14 ma soprattutto l’inizio della guerra in donbas hanno costituito un momento abbastanza significativo anche da questo punto di vista: in linea con la retorica del cremlino, gruppi e forze della sinistra hanno letto da una parte le sollevazioni anti-janukovyč come un “colpo di stato”, magari di stampo nazi-fascista, e viceversa il movimento separatista nell’est del paese come una battaglia anti-fascista e socialista. Qual è la sua interpretazione?
Si era formato un campo ideologico molto eclettico nella parte di popolazione e di gruppi che hanno sostenuto il movimento separatista in donbas. Alcuni a sinistra ci videro un’opportunità politica e perciò si unirono alle prime proteste e una parte minoritaria addirittura andò a combattere nelle fila dei separatisti. Allo stesso tempo, alcuni dei gruppi separatisti facevano uso della simbologia sovietica e mettevano in campo riferimenti al passato sovietico, anche quello dei primissimi anni dopo la rivoluzione. Ma era chiaro fin da subito che non c’era quasi niente di progressista o anche solo di radicato in un’idea di futuro in questo utilizzo: si trattava di un movimento che aveva una natura puramente reattiva rispetto alle proteste di euromaidan. La popolazione era in effetti polarizzata, e non per via dell’utilizzo dei simboli o per via di janukovyč, ma direi soprattutto a causa delle reti economiche e politiche che separavano il corpo sociale del paese in quel momento nonché a causa del modo in cui il cremlino decise dunque di sfruttare queste divisioni endogene.
In un tale contesto, allora, l’utilizzo di simbologia sovietica rappresentava uno strumento “negativo”, che serviva a esprimere distanza e dissenso da ciò che avveniva con euromaidan e a marcare uno scarto in termini di identità con quegli eventi. Proprio per questo penso anche che l’aderenza ai simboli e alla memoria dell’unione sovietica fosse di mera superficie: non credo che alcun sostenitore dei movimenti separatisti avesse di fatto il desiderio di recuperare concretamente elementi del passato sovietico. Si trattava, a mio modo di vedere, di una reazione che trovava la propria radice nel modo in cui le diverse élite politiche locali nel corso degli anni si sono messe in competizione con il potere centrale di kyiv. Il gruppo che si era originato in donbas, che poteva contare su una buona capacità di mobilitazione degli abitanti dell’area, era sempre stato in un processo di contrattazione e negoziazione con kyiv e le proteste separatiste potrebbero essere dunque lette come la conseguenza di una contrattazione fallita, proteste che infine vennero ben presto sfruttate a proprio vantaggio e per i propri fini dal cremlino.
Dunque mi viene da dire che in primo luogo si originò la pura reazione negativa nei confronti di euromaidan e gli elementi di nostalgia sovietica emersero poi come mezzo per esprimere questa negatività. Una prova del loro carattere puramente “decorativo” è data dal fatto che potevano convivere molto facilmente con simbologie afferenti a ideologie teoricamente opposte come quella dei monarchici russi, legati a strelkov, oppure con gruppi di ispirazione esplicitamente fascista. Una volta che il cremlino si fu sostanzialmente appropriato di questo movimento e che nell’area si solidificò una struttura gestionale-organizzativa che definirei proto-politica, lo spazio per una potenziale critica del presente o di un qualche cambiamento in senso progressista era minimo. Quindi sì, c’era una bella mostra di simboli sovietici ma questa non si accompagnava a una capacità o alla volontà di lottare per una qualche istanza progressista, per condizioni di vita migliori per la classe lavoratrice, o di mettere in pratica una qualsiasi delle azioni che l’ideologia o la teoria marxiste presupporrebbero di mettere in pratica. E c’è da dire infine che questo utilizzo della simbologia sovietica ha persistito fino all’inizio dell’invasione su larga scala ed è stato riciclato dai tecnologi politici del cremlino durante i primi mesi di guerra: basti pensare ai segni sui carri armati o al modo in cui è stata sfruttata l’icona della signora anziana con la bandiera sovietica che si rifiutava di accogliere i soldati ucraini. Insomma, a quel punto, direi che risultasse chiaro come quella relativa all’urss e al comunismo fosse diventata davvero una “simbologia-zombie” ancora più priva di contenuto di quanto lo fosse durante la precedente guerra del donbas.
Nonostante questa strumentalizzazione e questa confusione, è stato fatto notare da molti come l’operato del cremlino sia qualcosa di fortemente “anti-sovietico” nella sua essenza: d’altronde, nel discorso con cui putin ha annunciato l’inizio dell’invasione, lenin e i bolscevichi venivano accusati direttamente della creazione dell’ucraina. Crede che i riferimenti all’urss e alla sua eredità mantengano comunque un potenziale critico per la sinistra nel contesto attuale?
L’utilizzo della “nostalgia sovietica” è stato in qualche modo centrale per alcuni gruppi afferenti alla sinistra post-sovietica. Penso però che la sua utilità per quanto riguarda le politiche di sinistra ora sia quantomeno discutibile. Esistono diversi gruppi in ucraina, in russia o in bielorussia che utilizzano simboli e riferimenti all’unione sovietica come strumenti per criticare il presente. Alcuni anni prima dell’inizio della guerra in ucraina, anzi, si è verificata una sorta di revival dell’interesse nei confronti della storia dell’urss da parte della sinistra post-sovietica: si sono formati in russia, in ucraina e in bielorussia, per esempio, gruppi di lettura che hanno ripreso ad analizzare testi classici della tradizione marxista ma più in generale fonti di letteratura politica dell’epoca sovietica. Sono apparse molte figure di YouTuber, giovani socialisti e marxisti, che hanno iniziato a raccontare e reinterpretare la storia sovietica da una prospettiva marxista.
Questi circoli hanno rappresentato un fenomeno abbastanza significativo, in termini di visualizzazioni e popolarità. Ciò ha generato la speranza che un tale tipo di fenomeno potesse condurre a un rinnovamento della sinistra post-sovietica, che sarebbe magari potuto sfociare in un movimento più ampio (o addirittura un partito) capace di portare avanti una sensata analisi critica della situazione attuale e di costituire dunque un’alternativa alla sinistra tradizionale rappresentata dai partiti comunisti e socialisti dell’area post-sovietica e alla cosiddetta “nuova sinistra” dei gruppi e delle sigle maggiormente influenzati dal marxismo di stampo più occidentale. Ora, la reazione della maggior parte di questi circoli allo scoppio della guerra in ucraina è stata decisamente deludente. A onor del vero, alcuni di essi hanno provato a elaborare un’analisi del perché l’invasione su larga scala abbia avuto inizio e hanno tentato di elaborare, se non proprio un programma politico, quantomeno un posizionamento a riguardo, ma la stragrande maggioranza di questi giovani “nostalgici dell’unione sovietica” si sono rivelati pietrificati nel loro pensiero. In pratica, sono andati avanti nei loro ragionamenti come se l’inizio della guerra non imponesse alcun ripensamento o aggiustamento delle loro analisi e delle loro convinzioni. Il loro messaggio politico, nel contesto dell’invasione, era il seguente: non dobbiamo prendere alcuna parte in questa guerra, non dobbiamo essere attivi ma, al contrario, ritirarci da qualsiasi iniziativa pratica e continuare a impegnarci nel nostro percorso di lettura e reinterpretazione della storia sovietica, nella speranza che questo tipo di impegno potesse essere un modo utile di criticare la guerra in corso. In sostanza, quasi tutti condannavano la decisione di putin ma, d’altro canto, rinvenivano nella scomparsa dell’unione sovietica la causa ultima dello scoppio della guerra. La radice del “male” insomma stava nel nazionalismo e nel capitalismo che affligge entrambe le parti del conflitto, arrivando infine alla conclusione che non putin bensì gorbačëv fosse di fatto da imputare come responsabile della guerra perché “sedotto” dalle lusinghe dell’occidente e del consumismo. Come agire, secondo loro, nel contesto dell’invasione dell’ucraina? Innanzitutto non allineandosi a nessun movimento o realtà “impura” che stesse a vari gradi collaborando con forze nazionalistiche o liberali.
Direi che tutto ciò ha portato a una sorta di involuzione di questi circoli di lettura e alla fine ha prodotto una smobilitazione politica su vasta scala di chi seguiva un tale tipo di attivismo. A ogni modo, alcuni di loro che sono rimasti in vista nel contesto russo sono stati costretti a lasciare il paese. Vivono in esilio e criticano il loro governo da fuori, al prezzo però di non aver alcun reale seguito che possa essere mobilitato politicamente sul campo. Chi è rimasto invece tenta di evitare di trattare qualsiasi tipo di argomento che possa essere usato dal potere come pretesto per la repressione. Da qui arriva il mio sconforto nei confronti di una strategia che si propone di sostituire idee e progettualità che guardano al futuro con l’attenzione quasi ossessiva verso il passato come strumento di critica del presente. L’altro fenomeno che mi ha portato a rimettere in discussione il fatto che la “nostalgia” potesse essere uno strumento utile per la sinistra è stato ciò che è avvenuto nella società russa in generale, così come in quella bielorussa. Se ci atteniamo ai sondaggi, la maggior parte di chi esprime un’attitudine positiva o un certo tipo di nostalgia verso l’unione sovietica finisce poi col sostenere l’aggressione di putin all’ucraina. Quindi, sì, si può sostenere che attraverso un approccio positivo nei confronti dell’unione sovietica si potesse giungere a un modo di criticare il presente efficace, ma il punto è che la nostalgia non è un programma politico o un’ideologia, non è nemmeno una visione del mondo.
Al contrario, se utilizziamo la terminologia gramsciana, potremmo dire che la nostalgia altro non è che un elemento di “buon senso” all’interno del “senso comune”. Il problema è che questo elemento di buon senso rimane al livello delle memorie individuali e quotidiane, molto ambigue e scoordinate fra loro e, oltretutto, memorie che sono diventate del materiale grezzo nelle mani della macchina propagandistica del cremlinoche le ha riassemblate a proprio vantaggio. E, infatti, vediamo come alla fine sia la retorica putiniana che si è appropriata con efficacia della componente di “grandezza” che nella memoria collettiva può essere associata all’unione sovietica: il richiamo a un momento in cui l’urss era capace di sfidare l’egemonia statunitense ed era rispettata sul piano internazionale, un paese potente militarmente ma anche un paese che, stando alla visione del presidente russo, continua la sua missione storica di riunificare le popolazioni slave dell’est (ovvero “i russi”). Quindi, in conclusione, non si può che affermare che la nostalgia sovietica come “materiale grezzo” abbia funzionato molto meglio per i nazionalisti russi e per il cremlino che per la sinistra. Un successo per la destra post-sovietica che anzi ha portato alcune frazioni della sinistra dalla propria parte: in russia, vediamo infatti che non solo il partito comunista (che è sempre stato una forza sostanzialmente conservatrice e sciovinista, che ha sfruttato la nostalgia per l’unione sovietica) ma anche parte della “nuova sinistra” che era stata molto attiva nell’opporsi al cremlino durante le proteste del 2011/12 si sono schierati dalla parte di putin. In sintesi: quelle forze e quei gruppi che erano più inclini a utilizzare l’arma della “nostalgia sovietica” per criticare il presente si sono rivelati al contempo i più inclini a sostenere lo stato di cose presente. Date queste premesse, non vedo come la “nostalgia sovietica” possa essere utile nella ricostruzione di una sinistra nel presente.
Che tipo di lavoro teoretico andrebbe portato avanti, dunque? L’invasione dell’ucraina sta conducendo tanti a elaborare nuovi approcci di lettura anche del passato sovietico, molto spesso da una prospettiva “decoloniale”. Qual è il suo punto di vista?
Quello che penso è che occorre essere molto cauti con delle riletture della storia che ci piacciono solo perché ci sembrano essere funzionali al momento politico attuale. Io metterei molta più energia nell’analizzare le tendenze presenti, piuttosto che incanalare queste energie nella revisione e nella reinterpretazione del passato. Ci serve comunque un lavoro teoretico paziente che focalizzi forse l’attenzione sulla storia della periferia dell’unione sovietica, dal momento che la maggioranza della storia dell’unione sovietica è stata scritta basandosi sugli archivi presenti a mosca e si può dire che sia stata scritta con un atteggiamento russo-centrico. Sappiamo ancora troppo poco addirittura di quanto accadeva in bielorussia e ucraina, per quanto si trattasse di repubbliche importanti nella struttura sovietica, e ancora meno per quanto riguarda le nazioni centroasiatiche. Penso dunque che quest’opera di revisione consista soprattutto nel colmare le mancanze storiografiche con cui ci confrontiamo al momento. Senza questo lavoro credo che la sinistra non sarà preparata per un uso della memoria e dell’eredità sovietica in ottica progressista, cosa su cui comunque rimango scettico ma che non ritengo impossibile.
Certamente, bisogna evitare di cadere in un anticomunismo volgare, che impone di abbandonare totalmente i riferimenti alla storia sovietica in nome di un nazionalismo aggressivo. Allo stesso tempo mi pare che l’uso puramente ornamentale di simboli e memorie sovietiche debba essere condotto con cautela, se non proprio lasciato da parte. Questo perché probabilmente per anni, se non decenni, sarà immediatamente associato all’uso che ne ha fatto il discorso e l’ideologia imperialista e conservatrice di putin. Occorre capire che mobilitare persone sulla base della memoria e simbologia sovietiche sarà un compito molto più faticoso di quanto lo era già negli anni novanta e negli anni 2000. Se si vuole percorre questa strada, che non scarterei tuttavia a priori, bisogna però essere coscienti che ciò implica un lavoro davvero grande di critica all’appropriazione che è stata messa in campo dalla destra putiniana. È vero che un tale tipo di lavoro teoretico è già stato iniziato in una certa misura: i circoli di cui parlavo in precedenza stanno provando a metterlo in atto, stanno tentando di criticare questa appropriazione conservatrice così come quella messa in atto dalla sinistra servile pro-putin. Ma mi viene da dire che è troppo tardi.
Il fatto è che negli anni novanta e nei 2000 il nemico principale della sinistra post-sovietica era rappresentato esclusivamente dai liberali: lottare contro di loro costituiva l’alfa e l’omega dell’attività di sinistra post-sovietica. Ora le condizioni sono evidentemente cambiate sia a livello internazionale che nel contesto post-sovietico. Vediamo per esempio che il liberalismo, nella sua versione egemone di “fine della storia”, se non è finito ha certamente perso influenza nel sistema-mondo assieme a un calo dell’egemonia statunitense. Ciò a cui assistiamo è l’emergere, soprattutto nella russia di putin, di un imperial-nazionalismo dai tratti fascisti o parafascisti ma anche al solidificarsi di forze simili nel continente europeo, dalla polonia alla germania, nella forma di populismi di destra. E mi viene da dire che, per una qualche ragione, la sinistra fa molto fatica a criticare questi fenomeni politici. Probabilmente anche per una paura fortemente radicata di allinearsi con le forze liberali: d’altro canto, come puoi criticare questi nuovi movimenti conservatori senza fare appello ai principi come quelli della democrazia o delle libertà civili o anche solo della libertà in generale?
In questo senso, mi viene da dire che la sinistra post-sovietica non abbia mai elaborato gli strumenti necessari per farlo e non intravvedo un modo in cui l’eredità sovietica e la sua memoria possano essere utilizzate in maniera efficace per criticare fenomeni politici di questo tipo. Al massimo, potrebbero essere utilizzati per mostrare che nel passato si sono date delle forme alternative al presente di vivere e convivere nei nostri paesi e che il ruolo che la russia ha giocato in questo contesto è stato anche differente dall’imperialismo di oggi e non è storicamente predeterminato. Ma chiaramente si tratta di un obiettivo insufficiente. Per come la vedo io, al momento, la sinistra post-sovietica e la sinistra internazionale sono ben lontane dal riuscire a formulare un programma politico che guardi al futuro. Senza di quello l’utilità dell’eredità e la memoria dell’unione sovietica sarà sempre limitate, e dati i tempi a venire questa limitatezza non farà che aumentare.
Questo comunque non significa che si debba smettere di parlare e di ragionare dell’unione sovietica. Anzi, ci aspetta un grosso lavoro teoretico da compiere, ci sono anche battaglie ideologiche da combattere come per esempio quella contro l’idea semplicistica di applicare i concetti di decolonizzazione al contesto post-sovietico. Ma bisogna essere consapevoli che tutte queste discussioni, per quanto necessarie esse siano, non potranno essere immediatamente degli strumenti per la mobilitazione sociale o per qualche tipo di propaganda politica. In questo senso, nel contesto della guerra attuale, mi piacerebbe sicuramente vedere discussioni molto più serie e più informate di quante ce ne sono ora riguardo al sistema globale degli stati-nazione e alla sicurezza internazionale. Argomenti su cui la sinistra ha smesso di porre l’attenzione. Al contrario, assistiamo molto spesso alla ripetizione di concetti e teorie che erano state sviluppate negli anni novanta o nei 2000, principalmente a partire dall’analisi dell’imperialismo statunitense. Mi pare insomma che non analizziamo bene le tendenze di breve e medio termine che abbiamo di fronte a noi e questo ci porta a volte a crearci un’immagine distorta del tempo in cui viviamo.
Non ci sono sufficienti dibattiti che riguardano la strategia di medio periodo della sinistra. Siamo in qualche modo bloccati fra discussioni su versioni alternative della storia – la sinistra si compiace di discutere di cosa sarebbe potuto accadere se, per esempio, fossero stati implementati gli accordi di minsk o se la nato non avesse accettato nuovi membri ecc. – oppure al contrario ci sono discussioni che riguardano orizzonti temporali nel futuro lontano – cosa succederà dopo che la cina diventerà la prima potenza mondiale, ecc. Ma davvero c’è un dibattito molto povero sulle tendenze dei prossimi anni, non abbiamo un’idea di cosa sta accadendo concretamente nel sud globale – per quanto quasi tutti a sinistra amino parlare del sud globale. Ma cosa succederà agli accordi di sicurezza quando la cina, penso inevitabilmente, reclamerà un maggiore peso sulla scena internazionale? In che modo si riallineeranno gli stati nel caso la nato dovesse dissolversi, come vuole la cosiddetta sinistra anti-guerra? Non ci sono discussioni serie su questo.
Penso che sia di fondamentale importanza discutere cosa vogliamo ora, nella congiuntura attuale. Sullo sfondo c’è sicuramente una paura di affrontare il presente, perché la guerra rappresenta una questione di vita o morte che ci aspetta dietro l’angolo e che crea anche il timore di un’apocalisse nucleare, ma di fronte a questa paura preferiamo chiudere gli occhi e sognare un futuro di rivoluzione globale oppure un passato che potrebbe essere stato diverso. Non riusciamo cioè a metabolizzare questa paura in un senso politico.