Francesco Brusa Andriy Brashchayko
Una serie di dieci puntate per raccontare il Donbas dal punto di vista della popolazione locale, di chi ci ha abitato e se ne è andato altrove in Ucraina o in Europa. Con le loro opinioni e posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini
Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.
Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.
«E così attraversi la Cecoslovacchia, poi la Polonia, e alla fine col tuo carro armato arrivi qui, nel paese del socialismo avanzato. All’inizio andava bene: la guerra lampo, il genio strategico dei tuoi generali, la rapida avanzata verso est. Passi relativamente senza problemi persino il Dniprò. E qui comincia il peggio: all’improvviso capiti in un posto dove tutto scompare – le città, la popolazione, le infrastrutture. E persino i nemici scompaiono chissà dove: in quella situazione ti avrebbero persino fatto piacere, e invece sono scomparsi, e più ti inoltri verso est, più ti senti inquieto. Ma quando alla fine arrivi qui […] perché qui, oltre le ultime palizzate, trecento metri appena al di là della strada ferrata, finisce quello che tu ti immaginavi della guerra, e dell’Europa, e del paesaggio come tale, comincia il vuoto senza fine, senza contenuto, forma e sottotesto, il vero vuoto totale in cui non c’è neppure una cosa a cui aggrapparsi».
È con queste parole vorticose e immaginifiche che lo scrittore ucraino Serhij Žadan – nativo della cittadina di Starobil's'k, oblast di Luhans'k – tratteggia in uno dei suoi romanzi la regione cosiddetta “del Donbas”, attraverso gli occhi di un ipotetico soldato tedesco durante la Seconda guerra mondiale che, una volta passato il Dnipro, si trova in qualche modo di fronte a un confine invisibile, immerso dentro una “zona grigia” in cui le cose paiono mutare di senso.
Ora, più o meno 80 anni dopo, la dinamica sembra invertita: l’avanzata militare non arriva più da Berlino ma da Mosca (e in termini di controffensive, da Kyiv), eppure ancora – lungo successive fasi che mescolano conflitti civili, guerre ibride, propaganda e contronarrazioni, invasioni su larga scala e logoranti battaglie di trincea – l’aggressione russa in Ucraina, parte della storia dei nostri giorni, pare essersi “impantanata” in Donbas.
È soprattutto qui, infatti, che si continua a morire. C’è chi difende i confini e l’esistenza dell’Ucraina, chi invece è mandato al fronte spesso dalle remote province orientali della Russia oppure viene coscritto all’interno dei territori occupati. Lo stesso Vladimir Putin ha annunciato la sua aggressione riconoscendo ufficialmente le repubbliche popolari di Luhans'k e Donec'k, sostenendo di dover proteggere la popolazione del Donbas dal “genocidio” che sarebbe stato portato avanti dal “regime di Kyiv” (un vero leitmotiv della propaganda del Cremlino, sul quale tra l’altro la Corte di Giustizia Internazionale ha di recente annunciato un pronunciamento nell’ambito di un caso aperto dallo stato ucraino nei confronti della Russia per dimostrare che non esistono giustificazioni legali per l’invasione in corso).
Per seguire il filo del parallelismo con gli eventi della Seconda guerra mondiale, vale la pena rilevare che la pubblicistica nostrana si è talvolta esercitata, legittimamente, nel raccontare la regione come casus belli principale e magari unico della guerra scoppiata in Ucraina, “alfa e omega” del conflitto (vari articoli sono stati intitolati Morire per il Donbas?, echeggiando la Danzica del ‘39 che diede il via all’aggressione nazista).
Similmente, come accennavamo, fin dal 2013-14 (quando cioè nel paese si era sviluppato da una parte il movimento di Maidan, favorevole a una maggiore integrazione dell’Ucraina nell’Ue e gradualmente evolutosi in una rivolta contro le politiche autoritarie e repressive dell’allora presidente Janukovyč, e successivamente dall’altra quello dell’anti-Maidan, attivo soprattutto nelle zone orientali e trasformatosi in ciò che la propaganda del Cremlino chiama “primavera russa”) sono andate sviluppandosi, al netto delle sfumature, due narrazioni contrapposte e antitetiche.
Da una parte, c’era chi leggeva nelle tensioni separatiste della regione nient’altro che l’interventismo di Putin, teso a destabilizzare l’Ucraina e ad annettersi parte del suo territorio come aveva appena fatto in Crimea. Dall’altra, alcuni vedevano invece nell’autoproclamazione delle repubbliche popolari di Luhans'k e Donec'k (e nel contemporaneo assalto ad altre amministrazioni della zona) un riscatto da parte di quella componente di cittadini, tendenzialmente russofoni o di orientamento filorusso, che sarebbero stati da tempo emarginati e vessati dal potere centrale di Kyiv (o, a seconda delle versioni, dal “neonazismo galiziano” erede di Stepan Bandera).
Avvolto nella nebbia
Il Donbas dunque si trova davvero “avvolto nella nebbia”, come suggerisce il linguaggio metaforico dello scrittore Serhij Žadan: la cosiddetta “nebbia di guerra”, che da più di un decennio distorce informazioni, occulta i fatti e piega gli eventi a favore di obiettivi strategici e militari.
Una nebbia che nutre l’ambiguità delle diverse “costruzioni mitologiche” che hanno di volta in volta provato a fondare una supposta specificità identitaria della regione (che rimandano genealogicamente all’epoca sovietica, quando proprio sulle attività minerarie della zona si era edificato il mito di Stachanov, oppure ancora prima con l’effimera formazione della repubblica di Donec'k-Kryvyi Rih nel 1918, fino alle moderne giustificazioni irredentiste della Novorossija).
Ma che alimenta anche le controversie e le accuse reciproche fra Ucraina e Russia, cresciute durante la parziale e insufficiente implementazione degli accordi di Minsk così come la sostanziale opacità con cui i diversi “capi” delle due repubbliche popolari (succedutisi spesso al potere attraverso lotte intestine e attentati incrociati) hanno governato in questi anni parte dell’area. Tutto questo rende il Donbas un “significante” quasi aleatorio, e a partire dal quale si esercitano speculazioni di diversa natura, talvolta anche molto fantasiose.
Eppure, al pari di tutti i luoghi del mondo, più che un’idea astratta il Donbas dovrebbe essere innanzitutto una realtà concreta, fatta dalle persone che ci vivono, vi sono cresciute e che magari hanno abbandonato quelle terre da poco a causa del conflitto in corso.
"Mi pare che la regione da cui provengo stia diventando sempre di più un buco nero", ci racconta Hanna Perekhoda, ricercatrice e attivista originaria di Donec'k che attualmente vive fra la Svizzera e l’Ucraina.
La storia del Donbas, e dei conflitti che lo attraversano, è innanzitutto una storia di migrazioni: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, già a giugno del 2015 si erano creati 1.358.000 sfollati interni provenienti dalle zone d’occupazione (con altre 746.000 persone che hanno cercato una forma di asilo o ricollocamento in Russia, 81.200 in Bielorussia e circa 70.000 in altre nazioni principalmente europee), numero che con l’invasione su larga scala è aumentato raggiungendo i sei milioni totali (di persone cioè provenienti dall’intero territorio del paese).
La situazione attuale tra ambiguità e mitologie
"Ho la sensazione che là, dopo tutto quello che è successo in questi anni, non sarà più possibile una vita normale per molto tempo. È una tragedia totale, sotto tutti i punti di vista: ecologico, sociale, economico – sarà difficilissimo ricostruire tutte le infrastrutture – e anche ideologico, perché la mia impressione è che rimanere sotto occupazione e nel mezzo di una guerra su larga scala ti porti all’impazzimento. Diverse mie conoscenze che hanno vissuto sotto occupazione si sono suicidate, perché hanno perso ogni speranza…", afferma Hanna Perekhoda. "Io personalmente so che non ci farò mai ritorno. Forse il Donbas è un emblema di cosa succede alle regioni che hanno legato il proprio destino a un impero quando questo stesso impero crolla. La Russia, che dice di aver mosso guerra per salvare il Donbas, ora lo sta distruggendo con le sue stesse mani".
Per tanti di coloro che hanno un qualche legame con l’area, il senso di disperazione e smarrimento sembra essere pervasivo.
"È difficile restare completamente sani se si è rimasti nei territori occupati per tutto questo tempo, per anni", afferma in modo simile anche Masha – giovane insegnante di inglese proveniente dalla città di Luhans'k e ora ricollocatasi a Lviv, nell’estremo occidentale del paese, col suo fidanzato.
Già nel 2014, a poche settimane da quando le forze separatiste assaltavano i palazzi governativi, aveva scelto di trasferirsi e vivere a Kharkiv, nella zona controllata dalle autorità ucraine: un’esperienza che le ha fatto subito temere per il peggio nel momento in cui la Russia aveva iniziato ad ammassare nuovamente le proprie truppe al confine durante la primavera del 2021.
"Dopo l’occupazione, i miei genitori erano rimasti in città. Divorziati da molto tempo, sono riuscita a fare in modo che mia madre si trasferisse in Israele, mentre mio padre si è un po’ diviso fra la regione di Zaporižžja e Donec'k. Questo fino al momento della sua morte, avvenuta quattro anni fa. Nel corso del tempo, ho visto l’atteggiamento di mio padre mutare: è sempre stato, come me, patriottico e filo-ucraino ma a poco a poco è come se avesse sviluppato un risentimento forte, una specie di rancore verso l’Ucraina dato dal fatto che non era riuscita a liberare tutti i territori. È uno spostamento che ho osservato in molte altre persone rimaste lì: piano piano la retorica cambiava, si sedimentava un senso di disaffezione crescente", racconta Masha.
Forse, è significativo che l’acclamato regista Sergei Loznitsa – bielorusso di nascita, ucraino di cittadinanza (ma sempre dichiaratosi “cosmopolita”, al punto da essere stato espulso dall’Accademia del cinema ucraino per la sua opposizione al boicottaggio dell’industria culturale russa in seguito all’invasione su larga scala) – per raccontare il Donbas, al contrario di altri suoi lavori di taglio documentaristico sulla storia del paese come Majdan (2014) o Babij Jar. Kontekst (2021) – abbia utilizzato un linguaggio di finzione, da “mockumentario”.
Il suo lungometraggio Donbass (2018), girato e uscito durante la prima fase del conflitto, sembra proprio voler mostrare una totale coesistenza di piani diversi e intrecciati: la normale quotidianità della popolazione che si tinge di grottesco, la fedeltà alle ideologie presentata come un fenomeno kitsch e postmoderno, il basso costante della violenza, dei bombardamenti, delle uccisioni che però si confondono fra la realtà del sangue e la propaganda della messa in scena (la scena finale rappresenta appunto una strage che si svolge in un camerino).
Per dirla con le parole dell’analista politica e docente universitaria Kateryna Zarembo, appena pubblicata in italiano con Il Donbas è Ucraina (Linkiesta Books, 2022): "La parte orientale dell’Ucraina – e cioè, per essere più precisi, quell’area che viene definita con il toponimo 'Donbas' – è probabilmente la regione ucraina più mitizzata e allo stesso tempo più demonizzata. L’immagine del Donbas è intrisa di miti e stereotipi, forgiati dai vertici sovietici e poi rafforzati e tramandati dai vertici politici locali dell’Ucraina indipendente".
Dentro a questi miti e stereotipi, si giocano ora – oltre ai destini collettivi di due popoli – anche le biografie e le storie personali di milioni di persone fra Russia e Ucraina: chi ha chiuso totalmente i ponti con le proprie origini, chi è scappato nel corso degli ultimi dieci anni e sogna un’Ucraina indipendente, ma magari ha ancora un parente a Donec'k o Luhans'k “filo-russo” con cui parla a fatica, chi al contrario se n’è andato fin da subito in Russia o altrove e non vuole saperne più nulla dell’Ucraina, chi è stato coscritto a forza nelle milizie delle repubbliche popolari, chi è stato coscritto o si è arruolato volontariamente nelle fila ucraine e si trova dunque a combattere, talvolta a bombardare, le case di chi un tempo non troppo lontano era suo vicino…
La “questione del Donbas” intreccia piani diversi, che coesistono senza per forza annullarsi gli uni negli altri. Letture troppo ideologiche, siano queste l’irredentismo russo o il nazionalismo “purista” ucraino, rischiano di sotterrare e appiattire le voci e le prospettive di chi in quella regione ci vive, o ci ha vissuto fino a poco tempo fa, e sul tema riflette da un punto di vista interno. Eppure, è proprio da queste voci e prospettive che occorrerebbe partire per capire passato e presente del Donbas, e – si spera – immaginarne un futuro.