Germano Monti
Il 25 luglio scorso le forze di sicurezza di Mosca hanno arrestato il sociologo Boris Kagarlitsky, notissimo intellettuale marxista russo che non ha mai nascosto la sua opposizione a quella che i russi sono costretti a chiamare “operazione militare speciale”. La liberazione di Kagarlitsky è stata chiesta anche da un appello sottoscritto da molti esponenti della “sinistra radicale” finora silenti sulla repressione in Russia e che sta raccogliendo molte adesioni.
Il 25 luglio scorso le forze di sicurezza di Mosca hanno arrestato il sociologo Boris Kagarlitsky, notissimo intellettuale marxista russo che non ha mai nascosto la sua opposizione a quella che i russi sono costretti a chiamare “operazione militare speciale”, vale a dire la guerra di invasione dell’Ucraina scatenata dal Presidente Vladimir Putin. L’arresto di Kagarlitsky, a differenza di quanto avvenuto nei confronti delle innumerevoli azioni repressive condotte in precedenza dal regime di Putin, ha prodotto reazioni molto forti da parte di ampi settori della sinistra internazionale, compresa quella italiana, che si era finora distinta per il suo silenzio verso le condotte del Cremlino.
Sin dal primo giorno dell’invasione russa, nonostante lo sbandieramento di slogan come “Né con Putin, né con la NATO”, in Italia sono state promosse dalla “sinistra radicale” decine di manifestazioni contro le basi NATO e le sedi dell’Unione Europea, mentre autorevoli esponenti della nomenclatura della stessa “sinistra radicale”, in nome della pace, lanciavano appelli contro l’invio di armi all’Ucraina e affinché venissero revocate le sanzioni imposte alla Russia, proponendo, in sostanza, di disarmare gli aggrediti e premiare gli aggressori. Da parte degli esponenti di questa “sinistra” non si è levata una sola voce di solidarietà o anche solo di semplice pietà verso le donne e gli uomini ucraini costretti dai bombardamenti russi a rintanarsi nei rifugi sotterranei e nelle gallerie delle metropolitane, delle donne stuprate dalle truppe di occupazione russe, dei cittadini di Mariupol e delle altre città e dei villaggi rasi al suolo, dei bambini ucraini sottratti alle famiglie deportati per farne dei russi da laboratorio, esattamente come avveniva nell’Argentina degli anni 70. Naturalmente, da parte di questi esponenti, nemmeno una parola riguardo quei russi che hanno tentato e tentano di opporsi alla guerra di Putin e che hanno pagato e pagano la loro scelta con decine di migliaia di arresti, pestaggi e torture subiti. Al tempo stesso, le esternazioni dei dirigenti di questa “sinistra radicale” – dal Partito della Rifondazione Comunista a Potere al Popolo e Unione Popolare – abbondano di strali livorosi contro “la giunta nazigolpista di Kiev”, i “nazisti ucraini”, i “burattini della NATO”, e via insultando.
Il livello più surreale è stato raggiunto qualche settimana fa, quando un cartello di forze della “sinistra radicale” (composto, fra gli altri, dalla rivista Contropiano, dai movimenti giovanili Osa e Cambiare Rotta, dalla Rete dei Comunisti, Potere al Popolo, Partito Comunista Italiano, Patria Socialista, Rifondazione Comunista, Unione Popolare, Fronte della Gioventù Comunista), con guest star un simpatico Comitato di solidarietà alla Bielorussia (quella del dittatore Lukashenko, ovviamente), ha promosso una manifestazione “contro la repressione” davanti l’ambasciata ucraina a Roma, per denunciare la presunta volontà omicida del solito “regime nazigolpista di Kiev” nei confronti dei due fratelli Kononovich, detenuti – agli arresti domiciliari e con totale libertà di comunicazione con l’esterno, anche via web – perché accusati di collaborazione con i servizi segreti della Federazione Russa e della Repubblica di Bielorussia. Difficile non osservare come le condizioni della detenzione dei fratelli Kononovich in Ucraina appaiano piuttosto diverse rispetto a quelle dei prigionieri politici in Russia, deportati a centinaia di chilometri dal proprio luogo di residenza, sottoposti a regimi durissimi e impossibilitati a comunicare con l’esterno. Oltre al celebre caso di Alexey Navalny, è doveroso ricordare, fra i tanti altri, quello del giornalista Vladimir Kara-Murza, arrestato nell’aprile 2022 con l’accusa di aver diffuso false informazioni sull’esercito russo in Ucraina e, successivamente, quella di “alto tradimento” per una serie di interventi pubblici in cui criticava le politiche del Cremlino e la condotta della guerra in Ucraina. Sulla base di queste accuse, nell’aprile scorso Kara-Murza è stato condannato alla pena di 25 anni da scontare in un penitenziario di massima sicurezza.
L’arresto di Boris Kagarlitsky sembra aver scosso le coscienze anche di chi, fino a ieri, taceva l’evidenza della natura reazionaria e imperialista del regime moscovita. In particolare, in un comunicato Potere al Popolo si spinge fino a definirlo come “un regime antisociale, omofobico e transfobico, guerrafondaio e cleptocratico”, non limitandosi a rivendicare la liberazione di Kagarlitsky ma anche ricordando che “qualche settimana fa è stato costretto ad andare in esilio Mikhail Lobanov, matematico licenziato dall’Università statale di Mosca su pressione diretta della cerchia di Putin”, dopo aver bollato la politica del Cremlino come “totalmente ostile a ogni idea di emancipazione politica e sociale”.
La liberazione di Kagarlitsky è stata chiesta anche da un appello sottoscritto da molti esponenti della “sinistra radicale” finora silenti sulla repressione in Russia e che sta raccogliendo molte adesioni, fra le quali vale la pena di segnalare quelle di Maurizio Acerbo, Franco Berardi, Marco Bersani, Fausto Bertinotti, Raffaella Bolini, Luciana Castellina, Marta Collot, Giorgio Cremaschi, Angelo d’Orsi, Luigi de Magistris, Donatella Di Cesare, Tommaso Di Francesco, Ida Dominijanni, Haidi Gaggio Giuliani, Toni Negri, Giovanni Russo Spena e Guido Viale. Molti altri – fra cui il giornalista Jury Colombo, curatore delle edizioni italiane delle opere di Kagarlitsky e chi scrive – hanno ritenuto di non aderire all’appello per il suo inaccettabile silenzio nei confronti di tutti gli altri oppositori vittime della repressione del regime di Putin e per l’altrettanto inaccettabile presenza fra i firmatari, accanto a personalità di specchiata coerenza, di personaggi distintisi per la criminalizzazione del popolo ucraino e per gli ottimi rapporti intrattenuti con il sedicente Partito Comunista della Federazione Russa, fervente fiancheggiatore del regime di Putin e della sua guerra. Nell’appello, infine, viene omesso ogni riferimento al fatto che Kagarlitsky non sia stato perseguitato solo da Eltsin e Putin, cioè dall’“oligarchia che si è arricchita dopo la restaurazione del capitalismo in Russia”, ma che abbia conosciuto la repressione e il carcere anche in era sovietica, quando nel 1982 venne arrestato per “attività antisovietiche” a causa dei suoi scritti sui samizdat, i fogli del dissenso dell’epoca. Boris venne scarcerato l’anno successivo, ma poté riprendere la sua attività pubblicistica e di studio solo nel 1988, grazie alla perestroika di Mikhail Gorbaciov. L’appello, invece, segnala puntigliosamente che “In passato era stato criticato anche dai nazionalisti ucraini per aver definito come spontanea e conseguenza di Euromaidan la rivolta popolare che portò alla nascita delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk”, omettendo significativamente di aggiungere che il sociologo abbia anche detto e scritto che “nulla di tutto ciò spiega o giustifica la massiccia invasione delle forze russe nel territorio ucraino”.
Come sempre, il bicchiere può apparire mezzo pieno o mezzo vuoto. È possibile che a spingere alcuni ad esprimersi a sostegno di Kagarlitsky sia stato un riflesso opportunista dovuto al prestigio e alla notorietà del marxista russo e alla stima di cui gode universalmente, tutte cose che rendevano impossibile rimanere in silenzio. Potrebbe, però, essere anche il segnale di un disagio che inizia a prendere corpo anche fra chi, per più di un anno e mezzo, si è incatenato ad una visione distorta della realtà, piegandola a tutti i costi dentro schemi tanto precostituiti quanto anacronistici, con il risultato di allontanarsi sempre più dal sentire comune di un “popolo di sinistra” che certo non ama l’idea di inviare armi ad un Paese in guerra (e, in generale, non ama l’idea di produrre e vendere strumenti di morte), ma che sa distinguere fra aggressore e aggredito e non può che essere solidale con quest’ultimo. Un “popolo di sinistra” che vede come la NATO, prima dell’aggressione russa all’Ucraina, fosse in piena crisi, “cerebralmente morta”, per usare le parole del Presidente francese Macron, e come, grazie a quell’aggressione, sia risorta a nuova vita, attirando Paesi storicamente neutrali – Svezia e Finlandia, tanto per cominciare – e portando anche quello che è forse il più importante esponente della sinistra europea, Jean Luc Melenchon, a dichiarare realisticamente che “Oggi il tema dell’uscita dalla Nato non è condiviso, quindi per ora l’obiettivo è uscire dal comando unificato della Nato”. Parole che i “sinistri radicali” nostrani si sono ben guardati dal commentare.
Insomma, è presto per capire se le reazioni all’arresto di Kagarlitsky siano solo un fuoco di paglia o l’avvio di una riflessione profonda in un’area che sarebbe chiamata a rappresentare e promuovere coerentemente l’alternativa allo stato di cose esistente, piuttosto che giocare al Risiko di una geopolitica da osteria, indifferente alle ragioni dei popoli e alle dinamiche sociali e di classe.