Francesco Brusa
Un sito, ma anche una piattaforma di discussione per parlare di Russia e dell'invasione dell'Ucraina da una prospettiva progressista. È "Posle" ("Dopo"), che raccoglie voci soprattutto da chi è stato costretto a lasciare il paese. Ne abbiamo parlato con Marina Simakova, intellettuale ed animatrice del progetto
La voce di chi si è sempre opposto alle politiche di Putin dall’interno: Posle è un sito, una piattaforma di discussione, nato appena dopo l’aggressione contro l’Ucraina per iniziativa di intellettuali, ricercatori, attivisti e dissidenti russi di sinistra. Uno spazio virtuale che raccoglie pensieri e riflessioni di un “mondo” che da più di un decennio subisce repressione e censura, e che è rimasto sconvolto dagli avvenimenti del 24 febbraio dello scorso anno
“Nessuno credeva possibile un’invasione su larga scala,” ci racconta Marina Simakova – storica, accademica ed editor di Posle, che come tante altre persone ha deciso di lasciare il paese e ora si trova all’estero. Da lì nasce l’esigenza di analizzare e capire, ma soprattutto di aprire un dibattito non solo dentro la Russia, ma anche al di fuori (il sito ospita infatti contributi da diversi paesi, dall’Italia alla Turchia alla Svezia) su cosa è necessario fare ora e su quale mondo si può immaginare insieme, da una prospettiva progressista.
Abbiamo chiacchierato con lei, per farci raccontare il progetto editoriale e gli obiettivi che muovono la comunità di intellettuali russi emigrata all’estero, comunità che si espone pubblicamente per denunciare le azioni criminali del Cremlino in Ucraina.
Puoi raccontarci come è nato Posle?
Dato il nostro profilo di ricercatori, accademici, attivisti, sembrava l'iniziativa più logica da intraprendere dopo l'inizio dell'invasione. In quel momento, ci è apparso evidente che le nostre vite erano divise in un prima e un dopo. Nessuno se lo aspettava, e anche una volta avvenuto stentavamo a crederlo. E questo nonostante si discutesse molto della situazione delle truppe russe che venivano ammassate ai confini dell'Ucraina: l'eventualità che venisse lanciata un'invasione su larga scala sembrava però davvero remota, praticamente impossibile.
Direi che questa sensazione di una cesura netta fra un “prima” e un “dopo” è condivisa da tutta la popolazione russa – a prescindere dagli orientamenti politici e dalle differenze di estrazione sociale. Da qui, viene la scelta di chiamare il nostro progetto editoriale Posle, che significa appunto "dopo". Gli stessi contributi che abbiamo pubblicato e che provano ad analizzare quel momento dicono la stessa cosa: tutto ciò che c'era prima, ora non esiste più.
Io mi sono unita al gruppo un poco più tardi dell’avvio del progetto. Ma conoscevo molto bene le persone coinvolte. Più di dieci anni fa, dopo le proteste di piazza Bolotnaya – che furono fallimentari – alcune delle persone della redazione di Posle avevamo già iniziato a curare un progetto editoriale indipendente di sinistra (Openleft), oltre a collaborare in progetti legati all’attivismo politico e all’educazione, per cui nel momento in cui sono venuta a sapere che la "squadra” avrebbe lanciato una nuova piattaforma mi sono detta che volevo essere coinvolta.
Quale pensi debba essere il vostro compito come collettivo?
Dopo l’invasione, si sono fatte strada nella società russa due attitudini: tendenzialmente, chi svolge una professione per così dire più "tradizionale" come dottori o insegnanti, si è detto che in un mondo impazzito la cosa migliore da fare è quella di portare avanti con ancora più cura e dedizione il proprio lavoro, ciò di cui si è capaci; al contrario, soprattutto per intellettuali e artisti, la reazione è stata quella di rifiutare qualsiasi continuità con ciò di cui ci si stava occupando prima dell'invasione: ogni attività di questo tipo sarebbe risultata ipocrita, falsa, perché la realtà che si pretendeva di descrivere (con parole, poesie, film, ecc.) semplicemente non era più lì. Il linguaggio, nel senso ampio del termine, con cui ci si esprime andava completamente reinventato.
Per noi di Posle, si è trattato forse inconsciamente di mescolare le due opzioni: da una parte, nessuno di noi era un giornalista nel senso classico del termine; dall’altra, tutti noi eravamo impegnati in una sfera attinente a quella editoriale e di divulgazione del pensiero. Ecco che provare a realizzare un progetto che definirei di “giornalismo politico” (come lo fu l’attività giornalistica di Gramsci, per esempio, e in generale la tradizione di giornalismo engagé che si è sviluppata nel corso del Novecento), di natura internazionale e transnazionale (visto che comunque ciascuno di noi si trovava in paesi diversi) ci è sembrato lo sbocco più naturale della situazione in cui eravamo immersi.
Come portate avanti il lavoro redazionale?
In generale discutiamo quelli che possono essere temi e argomenti potenziali di discussione e pubblicazione, ma la maggior parte dei contributi che riceviamo sono il risultato del desiderio spontaneo di persone e gruppi che decidono di contattarci e di impegnarsi con Posle. Per esempio, mi rende molto orgogliosa il fatto che persone politicamente attive a livello regionale nell'estremo oriente della Russia – un contesto con cui già prima dell'invasione era difficile entrare in contatto – abbiano deciso di scriverci e di offrirci la loro prospettiva e le loro riflessioni.
Si tratta di una dinamica perfettamente in linea con alcune indicazioni che ci eravamo dati all'inizio del nostro percorso: non vogliamo essere un portale in cui vengono pubblicate opinioni di esperti o di figure impegnate solo su un livello teorico. Al contrario, desideriamo essere una piattaforma di discussione in cui persone attive politicamente possono condividere i loro pensieri e il proprio punto di vista. Retrospettivamente, tutto ciò mi fa pensare che sia stato un peccato (e un grosso limite dei movimenti in Russia) che negli ultimi 10-15 anni il gruppo di persone che nel nostro paese ha avuto la possibilità di condividere le proprie analisi e le proprie critiche di natura socio-politica è stato davvero circoscritto.
Se si vuole promuovere la partecipazione e l'elaborazione di idee nuove, occorre essere al massimo ricettivi verso voci che non hanno mai avuto occasione di esprimersi. Per questo cerchiamo di essere il più possibile aperti, mantenendo allo stesso tempo un certo rigore nelle pubblicazioni perché comunque non vogliamo essere un blog in cui è possibile prendere parola senza condizioni.
Che ruolo pensate di poter giocare nelle società russa?
La guerra porta a divisioni e conflitti profondi e insanabili, sia dal punto di vista personale che sociale. Si tratta di qualcosa che tutti avevamo letto nei libri magari, ma di cui non avevamo mai fatto esperienza diretta nelle nostre vite e che è difficile accettare. Eppure, per quanto non fossimo preparati a tutto ciò, ci siamo dovuti rendere conto di essere nostro malgrado coinvolti in un conflitto di natura esistenziale e morale, che ha a che fare letteralmente con la vita e con la morte delle persone.
Eppure, siamo convinti che una unità fra le persone può ancora esserci. In questo senso, credo che abbiamo raggiunto un certo grado di successo. Parlo soprattutto con riferimento all'“esterno”, cioè verso una platea di pubblico e di persone che contribuiscono al sito al di fuori della Russia. Abbiamo ricevuto contributi da contesti che, in termini di equilibri globali, dovrebbero essere in tutto e per tutto ostili nei nostri confronti, come i paesi baltici. E lo dico capendo la radice di questa ostilità. Ciononostante, è vitale riuscire a trovare un linguaggio con cui una tale ostilità possa essere, se non superata, almeno sospesa e con cui dunque continuare a dialogare. Un altro obiettivo che vedo importante è riuscire a parlare con la "sinistra internazionale", in particolare quella occidentale e non (dalla Turchia alla Svezia) che, per via di una qualche fedeltà all'eredità sovietica, sostiene Putin in funzione anti-Nato. Dal nostro punto di vista, è ovviamente una prospettiva assurda: come redazione non manchiamo di ribadire che questa guerra è quanto di più anti-sociale, anti-socialista e anche anti-sovietico possibile. Se c'è qualcosa che al contrario potrebbe salvare l'eredità socialista (o una qualsiasi alternativa all'ordine capitalistico vigente) è proprio la ferma contrarietà alla guerra mossa da Putin, nonché la fine del suo regime.
Ricevete riscontro dall’interno del paese?
Ci aspettavamo un pubblico più ampio in Russia. È difficile da valutare, perché siamo un sito ufficialmente bloccato nel paese e le statistiche sono ovviamene falsate, dal momento che gli accessi effettuati tramite VPN non sono conteggiabili con sicurezza. In ogni caso, si tratta di numeri molto inferiori ad altri progetti editoriali di opposizione alla guerra e alle politiche del Cremlino che invece cercano di raccontare il conflitto e la repressione da una prospettiva più quotidiana e personale.
Noi facciamo qualcosa di diverso dal punto di vista giornalistico e, inoltre, abbiamo assunto una posizione di sostegno allo sforzo militare dell’Ucraina e a un’eventuale vittoria di quest’ultima. Questo mostra però come le persone in Russia hanno una sensibilità per questioni sociali, ma tendono a percepire le discussioni politiche come qualcosa che appartiene a una dimensione in cui non si sentono legittimate e ammesse.
Provo una sensazione ambivalente: da una parte, l'attenzione che questo tipo di progetti editoriali riceve mi fa essere ottimista sul grado di partecipazione potenziale di un popolazione tendenzialmente “smobilitata” e apatica, attenzione che potrebbe costituire la base per un coinvolgimento dal basso; dall'altra vedo che un discorso come il nostro non riesce a coinvolgere in massa le persone che si trovano in Russia, e che dunque si fatica a cogliere la realtà della guerra attraverso una prospettiva più analitica e politica come la nostra.