Sopravvivere alla guerra

Author

Alona Liasheva

Date
April 20, 2023

Una sociologa intervista le vittime del conflitto in Ucraina per capire cosa patiscono, come elaborano il dolore, come l'orrore li sta cambiando e come tentano di salvarsi di fronte a tutto questo. Vite che gli scenari geopolitici spesso tralasciano

L’invasione russa ha reso omicidi, stupri e torture parte della nostra vita di tutti i giorni. Non smette mai di terrorizzarci, farci arrabbiare e ricordarci che non possiamo smettere di combattere. Quelle che ci difendono dall’invasore, quelle che hanno perso i propri cari o sono sopravvissute a stupri e torture sono le persone che fanno più fatica. L’esistenza di questo tipo di sofferenze non deve però rendere meno importante qualunque altra esperienza di guerra. Di fianco agli episodi più brutali della guerra noi viviamo le nostre vite quotidiane, che non spopoleranno su internet e non diventeranno storie per i grandi media occidentali, né tantomeno faranno tremare qualcuno dall’orrore. Ciò nonostante, nessuno dovrebbe vivere esperienze di questo genere, da nessuna parte. Questo testo parla proprio di queste esperienze «ordinarie», esperienze che non sarebbero dovute accadere.

Io sono una sociologa. Il primo giorno dell’invasione ho inviato tre lettere agli editori dei giornali accademici per i quali stavo scrivendo articoli sulla politica abitativa e urbanistica in Ucraina. Queste lettere informavano gli editori del fatto che avrei sospeso quegli studi su cui avevo lavorato durante l’anno precedente e che, sfortunatamente, non sapevo quando avrei potuto riprendere. L’invasione non ha solo cambiato la mia vita di tutti i giorni, ma anche i miei interessi accademici. Ora faccio ricerca sulla resistenza ucraina. Durante l’anno io e i miei colleghi abbiamo condotto interviste «in profondità» con cittadine e cittadini ucraini a proposito di quello che stanno vivendo e di come le loro concezioni del mondo, della politica, di sé e degli altri stanno cambiando. Forse un giorno qualcuno sarà in grado di analizzare queste esperienze e questi pensieri, di identificare dei trend e persino di osservare quello che è successo da diverse prospettive. Per ora però, ogni storia aggiunge solo conferme al mio univoco mondo in bianco e nero: un mondo dove c’è un bene e un male che deve essere sconfitto.

Proprio per questo, in questo testo non ci sarà alcuna analisi, quanto piuttosto un discorso diretto degli Ucraini che sono stati testimoni dell’occupazione e delle ostilità. Le trascrizioni delle interviste non sono state modificate in modo che i lettori possano cogliere non solo cosa le persone raccontano ma anche il modo in cui lo fanno. Reazioni emotive vivide, come risate o singhiozzi, sono indicate a loro volta. Le trascrizioni delle interviste sono state riportate senza citare le generalità degli intervistati per garantirne la sicurezza, per cui vedrete che i nomi delle persone o i luoghi sono sostituiti da asterischi o da una descrizione tra parentesi quadre.

Tutti gli eroi di questo testo sono molto differenti: fanno lavori diversi e parlano lingue diverse; hanno affrontato l’invasione su larga scala sia nei territori controllati dall’Ucraina sia in quelli controllati dalla Russia; hanno votato per candidati presidenziali diversi, spiegano le cause dell’invasione in modo diverso e anche le loro opinioni sulle autorità ucraine sono diverse. Quello che li unisce è la necessità comune di reinventare la propria vita, rovinata dalla guerra, sotto nuove condizioni.

Alcuni dei partecipanti della ricerca sono riusciti comunque a sopravvivere sotto l’occupazione. Considerati i rischi che le persone dovevano affrontare in quelle condizioni, non gli abbiamo chiesto un’intervista fino a quando non ha avuto luogo un ritiro completo o un’evacuazione. Un’altra ragione per lasciar perdere il lavoro sul campo nei territori occupati è stato il timore di non riuscire, durante le interviste online, a supportare una persona in stato di stress emotivo. Nessun dato sociologico vale tanto da rendere accettabile un nuovo trauma o peggio una nuova situazione di pericolo per i partecipanti.

Le storie che seguono avranno un effetto diverso per lettori diversi. Se stai leggendo questo testo in ucraino, molto probabilmente tu o un tuo caro avete vissuto qualcosa di simile. Facciamo in modo che queste storie ci ricordino che sia il nostro dolore, sia la nostra resistenza sono collettivi. Se stai leggendo questo testo in inglese, questa è la tua opportunità per scoprire com’è la realtà di tutti i giorni durante una guerra e cosa ci ha portato la Russia oltre a morte e distruzione.

Queste storie contengono risposte alle domande che riguardano il motivo per cui la società ucraina non vuole capitolare, il motivo per cui molte persone non lasciano il paese, anche se ne hanno l’opportunità, e il motivo per cui gli Ucraini spesso non sono pronti a guardare gli eventi attuali da diverse prospettive.

Vivere nelle città e nei villaggi sul fronte

A partire dal 24 febbraio 2022 molte città e villaggi si sono ritrovate sulla linea del fronte. Anche se questi luoghi non sono occupati, gli abitanti vivono in condizioni di pericolo estreme per colpa dei bombardamenti intensi e dell’impossibilità di accedere a beni e servizi essenziali (come acqua, cibo, medicine, illuminazione nelle strade e nelle case) e vivono in una condizione di totale incertezza del domani. La lista è infinita. Le zone sul fronte che includono grandi città come Kharkiv e Kherson sono le più attaccate e l’artiglieria nemica può raggiungerle molto spesso. Questo aumenta i rischi di dieci volte.

Le ostilità hanno completamente stravolto la vita di tutti i giorni. Una donna fuggita da un villaggio sul fronte nell’Oblast di Mykolaiv ci ha raccontato che il primo giorno dell’invasione lei non si aspettava che la guerra raggiungesse il suo villaggio, dato che non ospitava nessun tipo di strutture industriali o militari. Era molto più preoccupata perché sua figlia viveva in una grande città. Il giorno dopo però, la situazione è cambiata:

Tutto era calmo e tranquillo, non sentivamo questi lanci di missili, ma il venti… cinque, credo, di febbraio, abbiamo visto i razzi sul nostro territorio con i nostri stessi occhi, volavano molto basso. Lì abbiamo capito che la guerra…  era arrivata a casa nostra. All’inizio…  i primi tre o quattro giorni credo, chiunque nel villaggio credeva che sarebbe andata oltre, che noi…  che le truppe russe non sarebbero arrivate da noi, ma arrivarono nel giro tre giorni…  La vita cambiò drasticamente: ci trovammo senza luce, senza connessione [internet]…  Per le prime tre settimane e mezza abbiamo vissuto sapendo che erano vicini a noi ma che non sarebbero entrati nel nostro villaggio. Era inverno, quasi non avevamo riscaldamento nonostante avessimo il gas. Ma quasi chiunque aveva dei boiler [elettrici] a doppio circuito che non funzionavano. Non c’era elettricità, non c’era illuminazione, e potevamo solamente leggere le notizie sul telefono ogni tanto, quando c’era l’opportunità…  Dormivamo tutti insieme, riuniti in una casa perché così avevamo meno paura.

Nelle settimane successive, i bombardamenti si intensificarono:

Be’, ovviamente avevo paura. Faceva molta paura vedere queste enormi colonne di razzi volare sopra di te, giusto all’altezza della tua casa, e noi [sorride] spostavamo in un secondo un grosso divano per nasconderci e aspettare perché stavano volando i razzi. Ora li vedo volare più in alto i razzi, ma prima andavano dritti contro gli edifici. Quelle colonne.

Successivamente durante l’intervista ha raccontato che bombardamenti come quelli hanno ucciso alcune donne che conosceva, civili. Questi eventi l’hanno convinta a scappare verso la parte occidentale del paese. Dopo che Kherson è stata liberata, questa donna e molti altri abitanti del suo villaggio hanno iniziato a tornare indietro, per ricostruire le proprie case, risolvere alcune questioni e far riprendere il commercio.

Un’altra partecipante della ricerca è un’insegnante di scuola che è fuggita nell’ovest del paese da una grande città sul fronte. All’inizio dell’invasione aveva deciso di restare perché trasferirsi le sembrava un processo troppo complicato. Voleva inoltre rimanere vicina al marito, che aveva deciso di unirsi alle forze armate. Molte settimane dopo un razzo ha colpito il cortile del suo condominio ma, fortunatamente, non è esploso. La donna, sua figlia e suo nipote sono rimasti illesi. Nonostante la famiglia sia ora in condizioni di relativa sicurezza, continuano a vedere la propria città natale venire distrutta e persone che conoscono rimanere uccise. Così ha descritto la cosa peggiore che le è successa:

Dei ragazzi, forse dei soccorritori d’emergenza, stanno frugando tra [le macerie], e piangono a causa di quello che trovano…  E la cosa peggiore è che abbiamo trovato un quaderno della nostra scuola…  in un quartiere diverso. E il quaderno era coperto di sangue. Ci siamo resi conto che era successo a uno studente, non siamo nemmeno riusciti a capire chi fosse. Forse il quaderno era lì da tanto tempo, forse era di qualcuno che studiava, già. Be’, è stato uno shock.

Vivere sotto l’occupazione

Molti Ucraini si sono trovati dall’altro lato del fronte. Questo comportava non solo essere vicini alle ostilità e la mancanza di beni basilari, ma anche la violenza continua degli occupanti. Un uomo che stava a Bucha per prendersi cura dei genitori e degli animali domestici ci ha descritto così la sua vita durante l’occupazione. Ogni giorno era uno specifico tremendo giorno a cui sopravvivere. Alcuni giorni gli sembravano gli ultimi della sua vita. La connessione debole rendeva questi sentimenti ancora più duri. In queste condizioni, doveva ricostruire un’immagine dello stato delle ostilità attraverso le notizie raccontate dai vicini e dai rumori dei bombardamenti. Tutto ciò che gli rimaneva era credere e aspettare. Credere e aspettare era tutto ciò che gli era rimasto.

Alcuni giorni erano tremendi. Non so, alcuni giorni erano davvero cupi, c’erano sparatorie e altre cose, si, c’erano giorni così. E c’era questa sensazione, si, che ogni giorno potesse essere l’ultimo della mia vita. Si, e c’erano giorni più calmi, come un po’ di pace, ed era bello, tranquillo. Ma anche i giorni calmi erano terribili. Perché dopo il silenzio, può accadere qualcosa di orribile. [pausa] Perché sai che potrebbero stare portando altre armi o qualcosa di simile. Si, mi sentivo così. Ogni giorno era così, come posso dirlo, uno specifico giorno tremendo nella mia vita. È terrificante.

Il programma del giorno andava aggiustato a seconda dei bombardamenti. Tra un bombardamento e l’altro, una persona doveva riuscire a cucinare, nutrire gli animali domestici (qualche volta anche quelli dei vicini fuggiti), accendere il generatore per pompare l’acqua, trovare un posto dove ci fosse connessione mobile per provare a chiamare i propri parenti o ascoltare le notizie alla radio, cosa che funzionava raramente. E non appena si sentivano i rumori dell’artiglieria, scappare in cantina.

Con il tempo abbiamo imparato a capire quando «inizia». Sapevamo quando il bombardamento sarebbe iniziato e quando avremmo potuto fare colazione, pranzo e cena. Quello che voglio dire è che attaccavano secondo un programma. La cosa più ironica è che iniziavano alle cinque del mattino, c’erano sparatorie e sparatorie, fino alle otto o nove circa…  Poi basta, potevi andare in strada, camminare, nutrire [gli animali]. Cioè, davamo da mangiare ad animali qua e là, quelli rimasti. A ora di pranzo – esattamente a ora di pranzo – accendevamo il generatore per pompare un po’ d’acqua. E, mentre pompavi l’acqua, per circa dieci o venti minuti, tremavi. Perché giravano intorno, e se sentivano il rumore di un generatore cosa significava? Benzina. E se c’era benzina… Avevamo una sola tanica di benzina, circa di venti litri. La custodivamo come un tesoro, perché nessuno sapeva per quanto sarebbe stato così.

Le difficoltà di tutti i giorni non erano la cosa peggiore durante l’occupazione, erano la vita stessa sotto il regime di occupazione e la comunicazione con gli occupanti il vero problema. Le persone erano obbligate a nascondersi continuamente in casa, uscire il meno possibile, rischiando la vita. Gli occupanti facevano costantemente domande, perquisivano, umiliavano e abusavano delle persone. L’uomo con cui ho parlato a Bucha mi ha raccontato che queste cose spesso venivano fatte «per divertimento»:

Quelle palazzine erano di diciotto piani…  loro stavano sul tetto. Li potevamo vedere, stavano spesso su quel tetto. Di colpo iniziavano a spararci, così, per divertimento. Cioè sparavano sopra le nostre teste, non contro di noi, solo per spaventarci. Sentivamo questo rumore e vedevamo il fumo. Di colpo un fischio, e il proiettile ci passava di fianco.

Così ha descritto gli interrogatori:

Allora, facevano domande, domande molto ingannevoli. Lui [un parente] l’ha capito subito. Gli chiedono, «Chi è Bandera?» Lui pensa, «Allora, se dico che è un eroe nazionale, sono fregato, mi spareranno». Quindi risponde «Quando ho studiato a scuola era un nazionalista, ma ora non ne ho idea, non mi interessa, mi occupo delle mie cose». «Come si è formata l’Ucraina?» Lui pensa, «Se dico che è uno stato indipendente, sarà…» Inizia a rispondere in russo, «C’era l’Unione Sovietica. Poi c’erano la Repubblica Socialista Federativa Russa e la Repubblica Socialista Ucraina, insieme a quella georgiana e a quella bielorussa, e poi è collassata l’Unione Sovietica, e ora ci sono l’Ucraina, la Georgia, la Bielorussia e la Russia. Separate». E ha funzionato, non l’hanno toccato. Poi sono seguite altre domande, e lui ha capito che stavano facendo tante domande provocatorie cosicché, se rispondevi in modo diretto, per esempio dicendo che l’Ucraina è un paese indipendente, eri morto.

La mobilitazione, nascondersi nei territori occupati e scappare

Gli Ucraini che vivono nella Rpd [Repubblica Popolare di Donetsk, ndr] e nella Rpl [Repubblica Popolare di Lugansk] datano l’inizio dell’invasione su larga scala al 18 Febbraio e non al 24. Molti non credevano che la guerra si sarebbe sviluppata su larga scala; per questo motivo non sono scappati quando c’era ancora l’opportunità. Un giovane uomo che è rimasto nascosto per cinque mesi per evitare la mobilitazione della Rpd, finché non è riuscito a scappare, spiega qui le circostanze che gli hanno fatto capire che l’invasione stava per iniziare:

Era il 19 di febbraio, io e il mio migliore amico eravamo al lavoro e abbiamo ricevuto una chiamata dalla nostra vicedirettrice: «Ragazzi, stasera dovete venire al commissariato militare con le vostre cose». Io le dico, «Che cosa devo rispondere?». Lei dice, «Allora, io non posso dirti niente, ma mi hai sentito, hai ricevuto l’informazione». Le dico, «Okay, ho capito, è tutto quello che posso dire». Ci rendiamo conto che sta arrivando qualcosa di brutto il 20, di sabato. A quel punto mi dico, «Cazzo, andiamocene, non me ne frega niente se ci licenziano o no, andiamocene a casa ora, facciamo le valigie e cerchiamo un modo per scappare». Era la mogilisation [parola usata da russi e ucraini per descrivere la mobilitazione aggressiva], quando hanno iniziato a reclutare i mobics. Quindi abbiamo fatto questo. L’ho strattonato, siamo partiti e corsi a casa. Poi, in mezz’ora, alcuni uomini armati sono arrivati dove lavoravamo e hanno portato via tutti gli uomini. Quella mezz’ora ci ha salvato. Siamo arrivati a casa e abbiamo iniziato a cercare, usando tutti i canali e le conoscenze possibili, un modo per andarcene. Abbiamo iniziato a ricevere messaggi, per esempio uno di una donna che conosciamo, una sorta di capo che lavora in un commissariato militare: «Ragazzi, è tutto a posto, vi faranno solamente delle fotografie e poi vi lasceranno andare via». Ma ero già attento, avevo capito come funzionava quello stupido sistema, per cui ho detto «No, non andiamo da nessuna parte».

La sua ragazza, anche lei rimasta e che si è presa cura di lui per questi cinque mesi in quanto aveva la possibilità di uscire ogni tanto, descrive la situazione dal suo punto di vista e il modo in cui è stata portata avanti la mobilitazione:

Sono rimasta a casa con i ragazzi perché c’erano i bombardamenti ed ero spaventata e alla fine sono finita sotto il fuoco…  Eravamo molto preoccupati e temevamo che qualcuno avrebbe potuto portare via i ragazzi. Se incontravo qualcuno che conoscevo, normalmente andavo in un negozio indossando una maschera e un cappuccio perché avevo detto a tutti che ero scappata con i ragazzi, che avevamo oltrepassato il confine…  Certo, in realtà i commercianti della zona sapevano tutto: «Come stanno i ragazzi, non sono stati presi?». Una cosa così. Tutto ciò che vedevo e sentivo erano conversazioni nei negozi: per esempio due donne stanno in piedi e la commerciante le raggiunge, e una delle clienti racconta di un altro ragazzo che è stato preso e a cui è stato dato un avviso di convocazione proprio nel negozio, prima che iniziassero a rastrellare la gente. Tiravano le persone giù dagli autobus e poi passavano da appartamento a appartamento. Poco dopo sono iniziate le provocazioni, ci dicevano che era in corso l’evacuazione dell’edificio o che era successo qualcosa, un incendio o un incidente, così tutti i ragazzi uscivano dall’edificio e loro li prendevano all’ingresso. Noi eravamo nel panico, ci barricavamo dietro la porta blindata, chiudevamo lo spioncino e spegnevamo le luci. C’era troppa pressione…  È stato davvero difficile…

Cinque mesi dopo, i checkpoint sono diventati meno rigidi e i ragazzi sono riusciti ad attraversare il confine e scappare attraverso la Russia:

L’esperienza peggiore che abbiamo avuto a un checkpoint è stata quando mi sono nascosta sotto il sedile, compressa, e io, che non sono una persona religiosa, mi sono quasi messa a pregare. Ero spaventata a morte. Alla fine la cosa peggiore di quel checkpoint sono stati, come si chiamano…  i commendachi, si, quelli che fermano tutte le macchine al confine e prendono la gente. La persona che ci stava portando si è fermata il più vicino possibile alla barriera, si è girata verso di noi, è stata una cosa divertente [ride]. Io ero lì, nascosta, mi accorgo che lui si sta girando e mi dice «Quando ti dico di correre, tu corri». Voleva dire alzarsi, prendere le valigie, le due che avevamo, e correre. Io mi alzo e dico «Corriamo, ora». Esco velocemente, prendo le valigie e corro… Corro verso il checkpoint e lui mi urla, «Dall’altra parte, idiota!» [ride]. Mi giro e corro nell’altra direzione. È come entrare in America dal Messico, o forse è molto più difficile lì, perché ti rendi conto che puoi finire in galera. Qui invece, in qualche modo finisce che muori…  e per cosa, cazzo? Cioè, io sono totalmente contro tutto questo. Non voglio essere presa dalla Rpd Fosse stata la difesa territoriale (in Ucraina), okay, non avrei fatto resistenza. Ma quando vieni preso dalla maledetta Rpd e mandato a morire come carne da macello… è una cosa completamente fuori di testa.

Mutuo soccorso e resistenza

Molti Ucraini, che prima dell’invasione non erano mai stati attivisti, hanno iniziato ad aiutare sia i civili sia l’esercito. Questo è il discorso diretto di una ragazza che, con l’inizio dell’invasione, ha capito che non poteva più stare al di fuori dalla politica e ha riorganizzato la propria azienda in un progetto di volontariato:

All’inizio della guerra ero fuori città per una settimana perché ero andata a visitare mia madre, e non è stato possibile tornare indietro. Volevo tornare in città già il primo giorno, a qualunque costo, ma il ponte era stato fatto saltare in aria, e sono riuscita a tornare solamente l’8 Marzo. Sono andata subito in cucina e ho iniziato a cucinare. Davo da mangiare a persone anziane nel vicinato e ricevevo richieste su Telegram, anche da nonne e nonni, per comprare raccolti e pane di Silpo [una catena di supermercati], per poter dare dell’aiuto umanitario. Mi erano rimasti un po’ di soldi, qualche migliaio di Uah [sigla della grivnia, valuta ucraina, ndr] e li ho spesi dai nostri fondi. Ho iniziato a postare su Instagram, chiedendo alle persone di fare donazioni offrendomi di cucinare per loro o per i loro parenti, e noi avremmo provveduto alle consegne in città. Ho trovato un ragazzo, un mio ex cliente, che era in contatto con dei volontari con delle automobili, e loro hanno consegnato pasti in tutta la città durante il coprifuoco.

L’intervistato di Bucha ha condiviso a sua volta la sua esperienza di solidarietà con altre persone che vivevano sotto il regime di occupazione. La sua famiglia ha delle capre che vengono munte e hanno iniziato a condividere il latte con gli altri. Attraverso questo network particolare, è riuscito a ottenere l’insulina per sua madre:

Le capre hanno partorito e hanno iniziato ad allattare, e i miei genitori le mungevano. Quindi avevamo del latte e lo condividevamo con la gente. Condividevamo anche altro cibo e qualunque cosa avessimo di cui non avessimo bisogno. Poi dopo un po’…  mia madre aveva quasi finito l’insulina, che le serve per questo problema…  la mia sorellastra, quando ancora c’era lavoro, si era accorta che che gli aiuti umanitari venivano consegnati e distribuiti all’ospedale. Ma era molto difficile arrivare là. Una volta abbiamo chiesto a un uomo, in cambio di un po’ di latte, se sapesse nulla degli aiuti umanitari e se ci fossero delle medicine. Lui ci ha risposto «Si, ne ho sentito parlare, di che medicine avete bisogno?». Ha chiesto a mia madre di dargli una lista dei farmaci di cui aveva bisogno, lei l’ha scritta e gliela ha data. Il giorno dopo ci hanno portato l’insulina e tutti gli altri farmaci. Oddio, non proprio tutti, ma c’era l’insulina, grazie a Dio. Ci siamo calmati a quel punto, perché prima la mamma stava per…  Tra l’altro non avevamo siringhe e avevamo un solo ago, così smussato da bucare a malapena la pelle. È stato davvero difficile, avevamo l’insulina ma nessuna siringa. Per fortuna almeno quell’uomo ha portato l’insulina e le cose sono andate un po’ meglio. Le persone qui cercavano di aiutarsi in ogni modo, appena vedevano qualcuno che ne aveva bisogno, condividevano ogni cosa. Certo, camminare in strada però non era spaventoso solamente durante le ore più calme.

Durante quest’anno, alcuni network di solidarietà si sono formati sia tra la popolazione civile sia tra civili e militari. Le persone che si sono trovate sotto il regime di occupazione cercavano di passare  informazioni alle forze armate ucraine. Questo, ovviamente è molto pericoloso. Qui viene riportato quello che il partecipante alla ricerca di Bucha ci ha raccontato di questa esperienza:

Abbiamo smesso di utilizzare Viber in favore di Signal perché questo, secondo la gente, ha una migliore protezione ed è più difficile da hackerare. Comunque non potevamo aggiungere nessun nuovo contatto e potevamo solamente chattare tra di noi. Diciamo, per esempio, che dei carri armati o delle auto stavano passando in un punto, o che c’erano delle sparatorie o qualcos’altro. In questo caso qualcuno avrebbe passato l’informazione alla Difesa Territoriale o ai militari. Cercavamo di aiutare e informare in qualche modo…  Abbiamo fatto foto di equipaggiamenti militari e ce le siamo scambiate tra di noi, ma abbiamo dovuto eliminarle perché se avessero visto informazioni di questo tipo sui nostri telefoni ci avrebbero, come si dice, ucciso sul posto.

Ogni tanto i partecipanti ci raccontavano che nascondevano ai parenti le loro attività pur di non preoccuparli. Un volontario arrivato nell’est dell’Ucraina venendo dall’ovest per evacuare i civili dalle zone di conflitto ci ha confessato: «Quando sono venuto qui come volontario, io… be’ mi sono inventato delle storie sul fatto che stessi andando nell’Ucraina centrale a ricostruire delle case o qualcosa di simile».

Praticamente tutti i partecipanti hanno un amico o un parente che si è unito alla Resistenza territoriale senza avere alcuna esperienza militare. Sostenere i membri dell’esercito, sia che si conoscano personalmente sia sconosciuti, è diventata una parte della vita:

Persone che non avevano mai visto un’arma, che vivevano in un villaggio dove c’erano otto pistole in totale, di colpo tutti volevano unirsi alla Resistenza territoriale. E che cosa avrebbero fatto contro l’artiglieria pesante? …  Quando hanno assaltato un carro armato con delle molotov, sono morti tre uomini. Tra di loro c’era uno dei migliori allenatori di calcio di ragazzi, è stato lui a guidarli nell’attacco. Per me è stato uno shock…  io non pensavo che la Difesa territoriale potesse avere alcuna utilità per il nostro paese. Invece ho scoperto che molti di loro combattono per me e mi proteggono. V***, un amico, si è unito alla Resistenza territoriale nei primi giorni, ha difeso il nostro villaggio dal terzo giorno e ora è in guerra. Be’, sono orgoglioso di lui. Era un autista di camion che lavorava all’estero, ed è andato in guerra perché ha due bambini.

Forse, la cosa più incomprensibile per un osservatore esterno è che, pur sostenendo e supportando la resistenza, gli Ucraini possano rimanere critici nei confronti del governo e delle sue decisioni. I partecipanti della nostra ricerca non erano soddisfatti del modo in cui stava venendo portata avanti la mobilitazione, criticavano le restrizioni contro i viaggi all’estero, evidenziavano i problemi delle forniture di armi, raccontavano del loro rifiuto di unirsi all’esercito e della paura di poter essere obbligati e si lamentavano perché le autorità non garantivano un’evacuazione sicura. Comprensibilmente, ma anche significativamente, l’argomento della corruzione politica saltava sempre fuori nelle interviste, nonostante la parola «corruzione» non comparisse nelle nostre domande. Alcuni non erano d’accordo, inoltre, con i nuovi nomi dati alle strade e con la demolizione dei monumenti dedicati a personalità russe. Ma non è nemmeno solo una questione di conflitti sociali su politiche specifiche. Durante le conversazioni, è emersa una narrativa secondo cui il sostegno al presidente è condizionato e temporaneo.

I processi della politica interna ucraina durante la guerra meritano ricerche dettagliate e, cosa più importante, a lungo termine, perché le opinioni politiche degli Ucraini sono cambiate drasticamente e continueranno a farlo. Non può che essere così durante uno sconvolgimento storico. Dopo le prime dieci interviste, non ero più sorpresa che il padre di un soldato «Azov» difendesse Pushkin, che una persona cambiasse deliberatamente lingua parlando ucraino e ascoltasse Arestovych [onsigliere del Presidente ucraino, Ndt] parlare in russo, e che un ucraino che parla russo sognasse il «collasso della Russia». Per quanto riguarda il nostro futuro non solo le contraddizioni politiche sono cruciali, ma lo sono anche la volontà e la disposizione a essere coinvolti nel discuterle e nel difendere i nostri interessi.

Le prime interviste sono state raccolte durante i primi due mesi dell’invasione. Quando il nostro team stava lavorando al copione delle interviste, non eravamo sicuri se le persone sarebbero state disposte e pronte a parlare di politica interna e a criticare le autorità ucraine. Questi dubbi sono stati totalmente smentiti. Ora (esattamente come un anno fa), i sociologi difficilmente incontrano indisponibilità nel parlare apertamente di politica, e anzi trovano spesso l’opposto. Purtroppo nulla è più politicizzante delle bombe.

Questo testo non può avere conclusioni. Questo è dovuto al fatto che le esperienze raccolte qui non sono ancora state vissute fino in fondo e non si è ancora potuto riflettere su di esse. Durante quest’anno è successo qualcosa che non sarebbe più dovuto accadere. Le ferite richiederanno molto tempo per guarire e potrebbero non guarire mai del tutto. Ogni tanto però, queste ferite rendono possibile che il «mai più» non accada di nuovo. Quello che possiamo fare è continuare ad ascoltarci l’un l’altro, e sperare che il mondo continui ad ascoltare le voci degli Ucraini.

Alona Liasheva è sociologa e ricercatrice di economia politica urbana l’Università di Brema e presso l’Università Nazionale Taras Shevchenko di Kiev. Questo articolo è tratto dalla rivista Commons, la traduzione è di Giovanni D’Amico.