Piero Maestri
Il 25 aprile – festa della Liberazione nell'anniversario dell'entrata a Milano dei Partigiani nel 1945 e della caduta del fascismo – è la festa più sentita dal cosiddetto popolo di sinistra e dall* antifascist*. A Milano si svolge il corteo principale, organizzato dall'Anpi e dal Comitato permanente antifascista che riunisce i partiti antifascisti, sindacati confederali e istituzioni locali.
La manifestazione di quest'anno racchiudeva forti aspettative e attenzioni per le polemiche dei giorni precedenti nei confronti del presidente dell'Anpi (1). Allo stesso tempo da settimane era forte anche la polemica sul carattere della Resistenza italiana del 1943/1945 e la sua “diversità radicale” dalla resistenza ucraina (maiuscole e minuscole volute, perché la resistenza italiana è spesso un po' troppo sacralizzata e considerata “unica” e allo stesso tempo quella ucraina viene considerata solamente come azione militare di un governo piuttosto di destra).
In piazza sono arrivate circa 70 mila persone ed è interessante provare a descrivere lo sfilare degli striscioni: Anpi e partigiani, insieme ai cartelli che ricordano i campi di concentramento; sindaci e rappresentanti delle istituzioni; partiti del centrosinistra; la comunità ucraina, contro la guerra di Putin; un piccolo gruppetto del partito radicale con 4 bandiere della Nato (sic!); l'associazionismo pacifista con le bandiere arcobaleno contro la guerra e l'invio di armi; le/i giovani palestinesi con le loro bandiere; i vari partiti della sinistra più o meno comunista o post-comunista, contro la guerra e la Nato; gruppi stalinisti pro “Donbass antifascista” (con i colori della croce di San Giorgio”; anarchici; No Vax e No Green Pass...
Un'apparente confusione che però rappresenta lo stato delle azioni e delle relazioni nel movimento pacifista e nella sinistra.
Facciamo allora un passo indietro.
Le manifestazioni contro la guerra in Italia sono iniziate immediatamente dopo l'invasione russa dell'Ucraina il 24 febbraio scorso. In realtà qualche tentativo di scendere nelle piazze anche prima c'era stato, da parte di alcuni settori pacifisti o del movimento antagonista che mettevano in guardia dal rischio di un conflitto aperto nell'area.
Le due principali iniziative del movimento pacifista contro la guerra sono finora state quelle del 26 febbraio a Milano e il 5 marzo a Roma.
Nel primo caso un cartello molto ampio di organizzazioni invitava a manifestare perché “La crisi in Ucraina, le tensioni fra Russia e Nato rischiano di creare una escalation militare, è importante sostenere iniziative di pace contro il proliferare delle armi, settore che non ha mai visto crisi anche nei momenti più duri della pandemia. Invitiamo tutte e tutti in piazza, perché prevalga il dialogo e non le armi.”.
In piazza Duomo arrivarono 20.000 persone tra le quali almeno 1000/2000 ucraine/i che restano abbastanza ai lati della piazza con le loro bandiere e loro slogan – senza essere invitare/i a intervenire dal piccolo palco degli organizzatori dove sfilavano i vari gruppi che avevano firmato l'appello.
Il 5 marzo a Roma viene indetta una manifestazione per il cessate il fuoco con un appello che recitava: “Bisogna fermare la guerra in Ucraina. Bisogna fermare tutte le guerre del mondo. Condanniamo l’aggressione e la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. Vogliamo il “cessate il fuoco”, chiediamo il ritiro delle truppe. Ci vuole l’azione dell’ONU che con autorevolezza e legittimità conduca il negoziato tra le parti. Chiediamo una politica di disarmo e di neutralità attiva. Dall’Italia e dall’Europa devono arrivare soluzioni politiche e negoziali.”
L'appello è firmato dalla Rete per la Pace e il Disarmo che raggruppa i sindacati confederali Cgil-Cisl.Uil, le grandi associazioni come Acli e Arci e così via. In pratica il tessuto storico sociale e culturale della sinistra italiana e del movimento pacifista,
Queste manifestazioni e le altre che vengono organizzate da queste reti, nella loro diversità, hanno tutte alcuni contenuti evidenti;
- un deciso NO all'invio di armi all'Ucraina
- il rifiuto dell'allargamento della Nato e del riarmo (aumento spese militari)
- la richiesta a governo italiano e Unione europea di prendere ogni tipo di iniziativa diplomatica per arrivare alla fine del conflitto.
Come possono spiegarsi queste posizioni – decisamente maggioritarie all'interno delle manifestazioni contro la guerra nell'intero occidente, a differenza con quanto chiedono e ripetono le sinistre dell'est europeo, e lo stesso movimento contro la guerra in Russia?
Ci sono evidentemente spiegazioni diverse ed è bene evitare qualsiasi generalizzazione o banalizzazione. Innanzitutto si deve segnalare che per la stragrande maggioranza delle persone e dei gruppi scesi nelle strade non si tratta di una forma di neo-campismo o peggio di rossobrunismo, per cui la guerra di Putin sarebbe in qualche modo una giusta reazione alle politiche di Usa e Nato. Queste posizioni esistono, ma sono minoritarie e in alcuni casi patetiche nella loro marginalità – anche se a volte ci sono casi di sovrapposizione (come vedremo più avanti)
Penso si possano dare diverse spiegazioni, che a volte si sovrappongono e a volte sono separate tra loro:
- la paura di un'escalation che possa portare ad un conflitto mondiale forse addirittura di tipo nucleare. Si tratta di un timore sincero e che guarda alle dichiarazioni belligeranti dei contendenti e degli stati alleati vedendone il rischio di non voler trovare vie d'uscita per poter trattare;
- una sincera preoccupazione che il proseguire della guerra provocherà maggiori disastri e lutti nella stessa popolazione ucraina, generalmente considerata “vittima”, costretta a subire bombardamenti per responsabilità di Putin e dello stesso governo ucraino che costringe la popolazione maschile a restare a combattere spesso contro le volontà degli uomini coinvolti e delle loro famiglie;
- un limite di lettura rispetto alle politiche di Putin e del circolo di potere in Russia, Non perché non ne riconoscano gli aspetti autocratici e repressivi, ma perché guardano alla politica russa come una reazione a quella degli Usa e della Nato, una risposta a queste. In questo senso la guerra non inizierebbe il 24 febbraio ma già nel 1989/1990 quanto la Nato non solo non si è sciolta ma addirittura si è allargata includendo diversi paesi dell'ex Patto di Varsavia;
- analogo limite, forse ancora più gravido di conseguenze, rispetto alla storia dell'Ucraina. In pratica il presidente ucraino Zelensky viene messo sullo stesso piano di quello russo in quanto ad arroganza e testosterone – ma soprattutto si esasperano l'esistenza di una destra neonazista e/o nazionalista come se queste fossero determinanti nella politica ucraina. E naturalmente si legge Euromaidan come un golpe e la successiva guerra in Donbass come responsabilità dei governi ucraini che “hanno ucciso 14 mila civili in 8 anni”;
- la guerra in corso viene interpretata come uno scontro tra nazionalismi (e/o imperialismi() contrapposti, entrambi con responsabilità analoghe nell'aver condotto ad una situazione di guerra aperta. Dentro questa spiegazione si possono trovare posizioni provenienti dal mondo femminista che vede uno scontro tra opposte logiche patriarcali e machiste.
Tutto sommato posizioni che erano in qualche modo prevedibili e che mantengono una loro coerenza per la maggior parte delle soggettività presenti. In particolare vanno segnalate quelle del pacifismo nonviolento, cattolico e non, che ritiene qualsiasi risposta armata come un prendere parte al conflitto e renderlo ancora più pericoloso e drammatico. Da questo l'idea che inviare armi significhi non solo partecipare alla guerra in corso ma aumentarne effetti sulle persone e politici.
Una posizione che, come già dicevamo, è molto diffusa anche in ambito femminista, che considera quello in atto uno scontro tra due idee altrettanto nefaste di “patria”, concetto maschile reazionario, e che ritiene importante non schierarsi con alcuna delle parti in conflitto, ma con chi scegli di sottrarsi, fuggendo e disertando, oltre che con le vittime.
Sul piano più direttamente politico tutti partiti o i gruppi organizzati della sinistra esterna al Partito democratico, e i sindacati confederali e di base, condividono gran parte delle posizioni sopra descritte – anche questi con una certa coerenza e provando a stare dentro un movimento pacifista che non è direttamente da loro promosso o loro riferimento diretto.
Può essere di qualche interesse sottolineare due posizioni particolari in questo ambito. Da un lato Rifondazione Comunista, da sempre impegnata contro le guerre e contro la Nato, che oggi mette al centro il No all'aumento delle spese militari e alla Nato (suoi gli struscioni “Né con Putin Né con la Nato”). Rifondazione guidata da un segretario politico che da deputato nel 2007/2008 votava a favore di un bilancio della stato proposto dal Governo Prodi di cui Rifondazione faceva parte che aumentava anche le spese militari. Incoerenza? Più che altro un pragmatismo per cui è diverso stare al governo o all'opposizione, oltre alla perdita di consensi che lo rende oggi un partito quasi ininfluente e senza alcun peso nelle dinamiche politiche nazionali, così da permettere di assumere posizioni radicali senza doverne rendere conto agli alleati di governo (che non ha più).
In ogni caso Rifondazione – che comunque ritiene principali responsabili dell'attuale situazione il governo statunitense e la Nato – condanna l'azione russa, a differenza della pletora di partiti che si richiamano al nome comunista, più o meno schierati con la strategia di Putin, vista come una risposta necessaria all'imperialismo Usa/Nato e al governo ucraino burattino di questi oltre che connivente con i neonazisti. Vero anche che Rifondazione, come il Partito dei comunisti italiani - partecipa alle conferenze dei partiti comunisti mondiali insieme al PC cinese e a quello russo...
Dall'altro lato va segnalata la posizione dell'organizzazione Potere al Popolo, che nasce da fuoriusciti da Rifondazione insieme ad altri gruppi politici e sociali, e del sindacato Unione sindacale di Base – che sono legati sul piano organizzativo e diretti politicamente dall'organizzazione Rete dei Comunisti (che produce la rivista elettronica Contropiano).
Questo sindacato è stato protagonista della protesta di operai portuali contro l'invio di armi in Ucraina, cercando di bloccare il carico delle stesse, una pratica antimilitarista già utilizzata in altri conflitti, dove la Nato era diretta protagonista della guerra di aggressione.
Questo sindacato è parte della federazione sindacale mondiale (WFTU) e con questa ha partecipato a diversi incontri a Damasco, anche su invito del presidente Assad.
Questo particolare non è secondario. Anche nel caso del conflitto siriano Usb si schierò decisamente dalla parte di Assad (e quindi della Russia) di fronte ad una rivolta considerata tout cour voluta e finanziata dall'imperialismo Usa, che avrebbe inventato e finanziato anche Isis come prima Al Qaeda; questo spiega anche la freddezza nei confronti dell'esperienza del Rojava e dell'Ypg, che in una fase del conflitto si sono appoggiati agli Usa per combattere Isis.
Non mancano gruppi libertari e della sinistra radicale, politica e sociale, che sostengono la legittimità della resistenza ucraina anche armata e che in questi mesi sono entrati in contatto con le sinistre ucraina e dell'est europeo, soprattutto grazie a delegazioni e carovane sindacali (come quella del 1° maggio...) e del Comitato europeo di solidarietà all'Ucraina. Così come va segnalata la partecipazione di diverse reti politico-sociali all'esperienza dell'Assemblea permanente contro la guerra lanciata dal Transnational social strike.
Comune a questi gruppi la condanna netta all'aggressione russa e la volontà di costruire reti che abbiamo all'interno le sinistre libertarie e antiliberiste ucraine e dell'est.
Praticamente nessun gruppo sostiene direttamente l'invio di armi – perché tutti considerano questa scelta da parte del governo italiano come foriera di una politica di riarmo e di aumento delle spese militari a scapito di quelle sociali.
In alcuni casi ci sono state iniziative che non nominavano direttamente questa questione, sostenendo la resistenza ucraina senza criticare direttamente l'invio di armi ma senza nemmeno richiederlo.
Queste posizioni sono diffuse nell'insieme del movimento ma non sono riuscite ad emergere in questi mesi sul piano della mobilitazione in strada (a Roma non c'è stata alcuna manifestazione politica di fronte all'ambasciata russa – solamente una testimonianza di Amnesty – e a Milano di fronte al consolato si sono trovare poche decine di persone).
In ultimo va segnalata l'organizzazione di manifestazioni contro l'invasione russa promossa da partiti di governo, organizzazioni collaterali o amministrazioni locali, in sostegno alle scelte del governo stesso, per protestare contro Putin e dare diretto sostegno all'Ucraina (in una di queste c'è stato il collegamento video con il presidente ucraino).
Manifestazioni partecipate anche dalle comunità ucraine mentre sono state disertate dal movimento contro la guerra e dalle sinistre – evidentemente a disagio nel manifestare con gli avversari politici che stanno portando avanti un esecutivo “di emergenza” profondamente liberista e di sostegno ai settori del capitale in materia di servizi pubblici, lavoro e così via.
Un elemento che va sottolineato di questi due mesi di guerra è il clima bellicista e polarizzato che si è creato, soprattutto a causa dell'insieme del giornalismo, sia stampato che televisivo.
Si assiste così ad un giornalismo che assume sempre più il carattere della propaganda, in nome di una “necessaria” unità nazionale che irride al pacifismo e si schiera senza alcun dubbio con le posizioni del governo – e degli alleati occidentali.
Particolarmente imbarazzanti le trasmissioni televisive che vanno sotto la categoria del “talk show”, nelle quali non c'è alcuna possibilità di comprendere posizioni differenti anche in maniera radicale, coperte dalla modalità rissosa e volgare del format – e dei personaggi che li frequentano.
In questo modo si chiede una qualche forma di censura di posizioni non schierate con il governo – che non hanno in realtà alcun effetto, anzi fanno emergere altri personaggi di dubbia capacità e scarsissima utilità che assumono il ruolo degli “oppositori al pensiero unico”, svilendo l'insieme del dibattito.
Uscire da questa polarizzazione è estremamente difficile restando dentro quella logica mediatica e di “teatro della politica”. Anche se quella stessa logica sembra tracimare nei social, in particolare dentro Facebook, dove si combattono posizioni pregiudiziali senza alcuna possibilità di dialogo. Tendenza in cui cadono anche persone intellettualmente capaci, che fanno circolare “informazioni” di dubbia provenienza e vere e proprie fare, pensando di rendere un buon servizio all'idea della “complessità” del conflitto in corso e quindi nell'impossibilità a schierarsi “se non con la pace”.
Guardando questa realtà – vivace ma piuttosto confusa – da un punto di vista più personale, di un attivismo contro la guerra che ha sempre cercato di avere al centro la solidarietà internazionalista, salta decisamente agli occhi un profondo limite, di analisi e di azione conseguente, dell'insieme del movimento pacifista e delle sinistre italiane – intendendo qui solamente quelle antiliberiste e libertarie, non quelle moderate e liberiste da un lato né quelle staliniste ai limiti del rossobrunismo dall'altro.
Questo limite è rappresentato proprio dalla scarsa capacità di fronte a questa guerra di aggressione russa di coniugare il no alla guerra e l'antimilitarismo con la solidarietà internazionalista e la vicinanza alle soggettività presenti in Ucraina. Un limite che era già evidente di fronte alle rivoluzioni della regione araba e in particolare di quella siriana.
Scrivevamo già due anni fa “L’altro elemento che oggi torna prepotentemente è l’incapacità di quel movimento nel suo insieme di comprendere la novità epocale rappresentata dai tentativi rivoluzionari nella regione araba (e non solo) e degli intrecci ambigui e drammatici tra le varie potenze globali e regionali nel fare di tutto per sotterrare quei tentativi anche con il ricorso alla repressione militare interna prima, e poi alla guerra dispiegata contro le popolazioni civili. Una cecità, voluta o semplicemente accettata senza vergogna, che ha fatto voltare le spalle a qualsiasi esperienza non fosse catalogabile dentro la falsa alternativa «regimi contro jihadismo» – con la significativa eccezione nei confronti del movimento curdo.
Come è successo anche in passato, è stato delegato alle Ong e alla cooperazione internazionale il compito di intervenire per alleviare il dolore della guerra, di sostenere materialmente e psicologicamente le vittime dei conflitti – quasi mai ponendo la questione politica della relazione con i soggetti concreti che quei conflitti li vivono.”
In Ucraina oggi sta succedendo la stessa cosa. Non si vedono e spesso non si vogliono vedere le soggettività antiliberiste e libertarie che di fronte all'aggressione russa hanno deciso di resistere, sia con le armi che senza, mantenendo la loro autonomia critica rispetto al governo Zelensky al quale si oppongono anche in questa fase bellica quando prende misure antipopolari in particolare contro i diritti di lavoratrici e lavoratori.
Un'esponente molto interessante e decisamente di grandi qualità intellettuali, politiche e morali del femminismo italiano in un'intervista sul “che fare?” in questa fase sosteneva la necessità di sostenere le/i dissidenti russe/i “e anche quelle/i in Ucraina se ci sono” (corsivo nostro). È un esempio lampante dell'incapacità a sostenere un confronto con la sinistra e i movimenti sociali ucraini che non passi da un loro preventivo distanziamento dalla resistenza armata e ancor più dalla richiesta di avere le armi per poter combattere.
Questo limite si accompagna sul piano politico ad una rimessa in questione del diritto all'autodeterminazione, guardata con sospetto perché foriera di nazionalismi e identitarismi. E in questo modo si cancellano le legittime aspirazioni ucraine a costruire da sol* la propria democrazia, il proprio futuro.
Persino non sostenendo l'invio di armi da parte europea e Nato si dovrebbero conoscere, riconoscere e incontrare queste soggettività politiche e sociali.
Questa pratica dell'incontro è stata ed è ancora al centro di diverse delegazioni e carovane partite per l'Ucraina in questi mesi, con obiettivi politici insieme a quelli umanitari.
In questi anni abbiamo imparato quanto sia necessaria una politica e una pratica mutualista e conflittuale e da questo punto di vista pensiamo sia necessario attraversare il conflitto. Mutualismo che significa in primo luogo una relazione diretta con le donne e gli uomini ucraine/i fuggite/i dal loro paese o già presenti in Italia come lavoratitici e lavoratori (che in queste settimane hanno anche manifestato con dignità e fermezza la loro volontà di pace, giustizia e libertà per l'Ucraina) e con le persone in Russia che non vogliono questa guerra – per provare insieme a loro a smilitarizzare le nostre coscienze e le nostre relazioni, e con loro capire quale sostegno possiamo dare qui e nei loro paesi.
Questo significa superare quel limite e diventare megafono delle sinistre radicali ucraina, russa e dei paesi dell'est, troppo spesso ignorate o guardate con una certa sufficienza.
E’ ormai evidente che questa guerra, come anche le altre condotte dall'imperialismo occidentale, sono il risultato di una crisi politica e sociale di un sistema capitalista che ha scelto la via del profitto finanziario e speculativo e quella interconnessa dell’aumento dello sfruttamento a livello planetario – a cui si aggiungono le tendenze autoritarie ed espansioniste oggi evidenti nell'aggressione russa all'Ucraina.
Questo sfruttamento e queste politiche autoritarie possono essere mantenute solamente attraverso un progressivo svuotamento della partecipazione democratica e dei diritti di donne e uomini, e per poterlo fare non è secondario lo strumento militare, interno ed esterno agli stati: quindi repressione e guerra – guerra contro i popoli.
Battersi per un mondo senza guerre e senza repressione militare significa stare dalla parte degli oppressi nei loro percorsi di liberazione e sostenere con forza e con passione le dinamiche che in tutto il mondo nascono per questa liberazione.
E anche in questa crisi costruire la pace significa costruire la giustizia sociale – insieme alle altre forze sociali e politiche antiliberiste, libertarie e antiautoritarie che hanno bisogno anche del nostro sostegno attivo, appassionato e impegnato.
Piero Maestri (attivista della solidarietà internazionale)
NOTA
(1) Il 4 aprile l'Anpi pubblicava un comunicato sui crimini di Bucha che recitava “L'ANPI condanna fermamente il massacro di Bucha, in attesa di una commissione d'inchiesta internazionale guidata dall'ONU e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili. Questa terribile vicenda conferma l'urgenza di porre fine all'orrore della guerra e al furore bellicistico che cresce ogni giorno di più.”
Un comunicato giudicato ambiguo e piuttosto “equidistante”, tanto più provenendo da un'associazione che si richiama ai valori dell'antifascismo e della resistenza (anche armata) al nazifascismo. Da lì è nata una polemica rumorosa e molto mediatica di attacco al presidente dell'Anpi.